Ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi ha ricalcato alcuni dei passaggi-chiave del discorso del presidente della Repubblica davanti alle principali cariche istituzionali.
Con una palese comunione di intenti, che sembra sfiorare la concertazione, il presidente del Consiglio Mario Draghi ieri ha ricalcato alcuni dei passaggi-chiave del discorso del presidente della Repubblica davanti alle principali cariche istituzionali. In particolar modo, l’ostentato e ripetuto omaggio ai partiti e al loro ruolo nei mesi di vita del nuovo esecutivo. Lodi apparentemente esagerate, alla luce della realtà dei fatti, dopo mesi in cui l’indirizzo delle forze politiche è stato ‘limitato’, a usare un eufemismo.
Le stesse frizioni sulla manovra (richiamate da Draghi) sembrano rispondere a puri riflessi condizionati dagli elettorati di riferimento. Bisogna guardare dietro queste lodi, dunque, per comprenderne il senso: il presidente del Consiglio, come prima Sergio Mattarella, sta ammonendo i partiti su quello che potrà accadere da oggi al 2023 e oltre. Lui potrà esserci o meno ma, in vista di settimane in cui il dibattito sarà monopolizzato dalla corsa al Quirinale, Mario Draghi ricorda il peso delle scelte fatte e da fare.
La responsabilità – fa capire con gelida consapevolezza, senza doverlo dire – alla fine non potrà che ricadere sui partiti. Il capo del governo, quando ricorda come spetti solo al Parlamento decretare la fine di un esecutivo, sta avvertendo che lui andrà avanti sin quando gli sarà consentito, come fatto dal primo giorno a Palazzo Chigi. Ribadisce di non conoscere strade alternative, anche perché non ve ne sono per l’Italia, dopo aver orgogliosamente sottolineato di aver centrato la lunga serie di impegni presi con la Commissione europea (51, ricorda) per dare il via all’erogazione dei fondi del Next Generation Eu. Quando il presidente del Consiglio scoppia a ridere all’ennesima domanda sul suo futuro al Quirinale, quando si autodefinisce un “nonno” a disposizione delle istituzioni fa colore, sta al gioco della conferenza stampa di fine anno, ma di sostanza ce n’è poca. La si trova tutta nel richiamare ciascuno alle proprie responsabilità.
A Palazzo Chigi non hanno dubbi, bisogna continuare sulla strada che ha garantito all’Italia un ritmo di ripresa capace di sorprendere l’Europa. Un mini-boom segnato dal successo dei vaccini, che hanno permesso di rilanciare le attività produttive, ora atteso da un’altra dura prova. Oltre le questioni politiche, più accennate che prese di petto (anche per riuscire a camminare sulla lastra di ghiaccio di una maggioranza tanto larga quanto disomogenea), l’altro argomento-cardine di ieri non poteva che essere la gestione della pandemia e la crescente minaccia della variante Omicron.
L’invito di Draghi a «sperare per il meglio, ma prepararsi al peggio» non significa mettere la testa sotto la sabbia e barricarsi in casa. Semmai, l’opposto: correre fuori di casa per vaccinarsi e continuare con l’attuale ritmo di terze dosi e magari aumentarlo. Non abbiamo alternative in una fase di recrudescenza del virus e in cui non siamo ancora in grado di misurare la portata di Omicron in Italia. Questo, va detto, è uno dei nostri punti deboli: possiamo vantare una percentuale di vaccinati con pochi eguali al mondo, ma non siamo messi altrettanto bene nel tracciamento del virus e nello studio in tempo reale della diffusione di Omicron.
Vaccinazioni, dunque, mentre le misure in arrivo oggi sono quasi scontate: obbligo di mascherine all’aperto e di tamponi anche per i vaccinati, in vista di feste e assembramenti di Capodanno, riduzione della durata del Green Pass. Ci siamo almeno evitati un nuovo balletto sulla scuola, con la smentita di fantasiose proroghe delle vacanze di Natale e Capodanno. Scavallate le feste, un punto di estrema delicatezza si staglia all’orizzonte: l’obbligatorietà del vaccino al lavoro. Anticamera dell’obbligo per tutti.
di Fulvio Giuliani
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