Migranti: la rappresentazione tragica di un ricatto politico e morale che la Bielorussia sta mettendo in atto verso le democrazie. L’Unione europea deve decidere cosa fare.
La vita e la morte, la libertà e la paura. Le speranze e il niente. C’è stato qualcosa di paralizzante, per la vecchia Europa democratica e attenta ai diritti, di fronte alle immagini di uomini, donne e bambini affollati e radunati in una fredda foresta bielorussa al confine con la Polonia. Sì, sono migranti. Gente in cerca di un futuro migliore. Ma sono anche la rappresentazione tragica di un ricatto politico e morale che la Bielorussia sta mettendo in atto verso le nostre democrazie. Il risultato, per noi europei, davanti a tutto questo è stato, sinora, solo uno: la paralisi.
Di fronte allo choc emotivo non siamo riusciti a combinare nulla, finendo bombardati ogni giorno dalla comunicazione costante e drammatica su gente disperata che ha bisogno di aiuto. Ha freddo. Ha fame. Ha sete. Muore. Ma anche davanti a una tragedia come questa fare i buoni non basta a sciogliere il ricatto politico e umanitario messo in atto. Lo sgomento non basta. Condannare non basta. Indignarsi non basta. La notizia di un bambino di un anno, morto nel bosco, al freddo, in quello che anziché un limbo in attesa della libertà si è trasformato in un inferno, è un fatto inaccettabile. Una notizia che ha scosso le penne di qualche giornalista europeo e italiano ma non ha sbloccato la nostra paralisi.
Si tratta adesso di parlar chiaro, a costo di sembrare dei maledetti cinici. E di rispondere a una domanda: la si può dar vinta ai ricattatori? Trattare con la Bielorussia, alle sue condizioni/intenzioni, significherebbe per l’Ue aprire i suoi confini al rischio di altre dieci, cento, mille situazioni simili a quella che si sta consumando, da giorni, sul confine polacco. Sarebbe un errore, seppur commesso a fin di bene. Ci torna in mente la leader israeliana Golda Meir che tra le diverse crisi internazionali si trovò ad affrontare anche quella del massacro di Monaco di Baviera. Alle Olimpiadi. Correva l’anno 1972 e durante la manifestazione olimpica un commando palestinese di “Settembre nero”, prese in ostaggio undici atleti israeliani (due vennero subito uccisi). I palestinesi chiesero, in cambio degli ostaggi, la liberazione di alcuni prigionieri politici. Golda Meir, durante quelle ore difficili, mantenne la propria linea della fermezza: non si tratta. Le vie di uscita da cercare, a suo giudizio, erano altre. Non certo quella di riconoscere valore di successo a un ricatto.
Ecco, oggi davanti alla crisi migratoria al confine tra Polonia e Bielorussia, l’Unione europea deve decidere cosa fare (ne parliamo nell’editoriale in prima pagina). Cedere sarebbe sbagliato. Quanto il continuare, politicamente, a restar paralizzati. Lo choc, infatti, non è mai una buona ragione (politica). Neppure quando corre sul tragico confine del rapporto tra la vita, la morte e la libertà.
di Massimiliano Lenzi
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