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Requiem della politica

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Requiem della politica. Le nuove considerazioni di Meloni che le opposizioni, e segnatamente il Pd, (sbagliando) non salutano con soddisfazione

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Requiem della politica. Le nuove considerazioni di Meloni che le opposizioni, e segnatamente il Pd, (sbagliando) non salutano con soddisfazione

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Requiem della politica. Le nuove considerazioni di Meloni che le opposizioni, e segnatamente il Pd, (sbagliando) non salutano con soddisfazione

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AUTORE: Carlo Fusi

Nei manuali di politica di una volta era scritto che tra i principali obiettivi di un partito c’era di scompaginare con proposte e iniziative le fila degli avversari, incuneandosi nelle loro difficoltà e costringendoli a venire sulle tue posizioni. Quando questo avveniva, in tutto o in parte, era una vittoria da celebrare. Quei manuali sono finiti nel cassonetto dell’indifferenziato e i risultati si vedono.

Prendiamo Gaza. Giorgia Meloni, più nolente che volente, è stata costretta a riaprire il dossier del riconoscimento dello Stato palestinese ponendo ovviamente dei paletti ma non considerandolo più un tabù. L’apertura – parziale ma non insignificante – della presidente del Consiglio testimonia della consapevolezza che stare in scia di Trump è possibile ma non agevole e che comunque a un certo punto bisogna procedere distinguendosi dalla Casa Bianca. Considerazioni che le opposizioni, e segnatamente il Pd, dovrebbero salutare con soddisfazione. E invece è ripartito inesorabile il fuoco di sbarramento volto a non riconoscere mai niente di positivo all’avversario, lasciando spazio soltanto alle critiche e all’invettiva. È una sorta di requiem della politica ma nessuno se ne dispiace più di tanto. Anche perché dall’altra parte ci si muove – spesso con ancora più forza – compitando il medesimo spartito.

Non è solo l’agonia della politica: così è tutto il sistema democratico che rischia. L’esempio più clamoroso arriva dal Parlamento, ormai definitivamente svuotato di ruolo e di fatto delegittimato; ridotto a palestra di esercitazioni della «nobile arte del comizio», come sogghignava ai tempi dell’Ulivo Massimo D’Alema dopo un intervento di Gianfranco Fini. Nelle democrazie compiute il Parlamento assolve alla funzione di luogo di dibattito e di confronto e soprattutto di possibili, ricercate e auspicabili convergenze. Da realizzarsi nelle Commissioni, in Aula, nei corridoi al riparo di occhi e orecchie indiscreti ma comunque volte a valorizzare il dialogo tra diversi, unico antidoto allo scontro nelle piazze.

Nulla di tutto questo è rimasto. I parlamentari non hanno più rapporti con i loro elettori, complice uno sciagurato sistema elettorale che ora pare si voglia cambiare (premierato adieu) ma senza toccare il potere dei partiti di scegliersi la claque nelle Camere. Non a caso la Costituzione si riferisce, assegnando loro uno spazio preciso, ai «gruppi parlamentari»; e una volta essere capogruppo significava acquisire una dimensione leaderistica inoppugnabile. Oggi invece i capigruppo sono poco più che cinghie di trasmissione delle volontà del Capo. E il gioco politico, se ancora così si può definire, diventa null’altro che un insieme di modalità atte ad eleggere – o, meglio, plebiscitare – il demiurgo di turno. In attesa che venga scalzato da un qualche golpe dentro o fuori del Palazzo. Il Parlamento? Chi se ne importa. Niente di strano che l’opinione pubblica lo consideri alla stregua di una pletora di ben pagati scansafatiche.

E a proposito del Capo, anche qui i paradossi non mancano. Lasciamo stare i requisiti minimi di democrazia interna alle forze politiche: l’articolo 49 della Carta è un revenant. Mentre a destra la leadership della Meloni è senza rivali – al punto che c’è chi vaticina la possibilità che la presidente del Consiglio accorci la legislatura andando al voto il prossimo anno, così da incassare il 30% che le viene attribuito e magari veleggiare verso il Quirinale – nello schieramento opposto si riaffaccia l’incubo di sempre e cioè la difficoltà, che spesso si tramuta in impossibilità, di avere un candidato per Palazzo Chigi che provenga dalle file della sinistra. Cosicché il famigerato fattore K diventa fattore C come candidato. Dopo il naufragio della gioiosa macchina da guerra occhettiana, da quella parte è stato un infinito cercare il papa straniero. Adesso potrebbe toccare a Giuseppe Conte, non a caso definito da Umberto Ranieri «il presidente di tutti i Consigli». Quanto sarebbe più utile e conveniente che fosse il confronto in Parlamento a decidere chi mettere sul trono. Ma ormai è una bestemmia.

Di Carlo Fusi

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