I dati Istat parlano di una ripresa dell’occupazione, ma bisogna andare cauti con i festeggiamenti. Il confronto con gli altri Stati europei è impietoso, la strada è solo una: utilizzare i fondi europei per rivalutare il lavoro come dignità di vita.
Piano con i brindisi. Ci sono dati positivi, ma è bene leggerli con freddezza e senza enfasi propagandistica o consolatoria, perché dentro ci sono cose per niente piacevoli. Il mondo del lavoro, nel quale si specchia un’intera società, ha bisogno di una rievoluzione, capace di tenere conto di quel che è cambiato e propiziare quel che è bene cambi. In fretta.
L’Istat ha comunicato che, finalmente, gli occupati italiani sono tornati sopra quota 23 milioni. Ottima cosa, ma siamo sempre con 115mila lavoratori in meno rispetto a prima della pandemia. E prima di quella eravamo già in troppo pochi a lavorare, per troppo poco tempo. Si sta risalendo, ma c’è più da lubrificare che da festeggiare.
Il più dei nuovi posti di lavoro è coperto con contratti a tempo determinato e da una ripresa del numero dei lavoratori autonomi, entrambi sopra i livelli del gennaio 2020, mentre i contratti a tempo indeterminato si sono ripresi molto più lentamente e, comunque, sono ancora al di sotto del livello raggiunto nel gennaio 2020. Questo non è di per sé un dato negativo o preoccupante, purché l’elasticità sia premiante per la produttività come per i produttori, per la produzione come per i lavoratori, purché in cambio di minore sicurezza futura mi si offra maggiore opportunità presente. Anche di guadagno.
Invece l’intero nostro sistema è pensato avendo in mente il lavoro con contratto a tempo indeterminato, sicché si ricalcano i suoi oneri – per l’impresa come per i lavoratori – sulle altre tipologie contrattuali e sugli altri inquadramenti. Chi ha un contratto a tempo determinato, specie se giovane, paga contributi per le pensioni altrui e non avrà mai quel tipo di pensione. Per non dire poi del carico fiscale e burocratico che pesa sugli autonomi, a loro volta componente essenziale dell’elasticità di un mercato, ma soggetti a regole che di elastico non hanno nulla.
Avendo risuperato la soglia dei 23 milioni abbiamo un tasso di occupazione (ovvero quanti lavorano in rapporto alla popolazione potenzialmente attiva) pari al 58,9%. A questo livello ci giochiamo con Grecia e Spagna il posto più in basso nella classifica europea. Solo che noi siamo la seconda potenza industriale.
E basta mettere un poco di attenzione nel leggere un rapporto sul mercato del lavoro, preparato dalla Commissione europea, per scoprire che competiamo solo con la Romania in quanto a piaga degli abbandoni scolastici, con la Bulgaria per la quantità di giovani che non studiano e non lavorano, con Cipro per il reddito lordo disponibile pro capite, mentre con Ungheria e Polonia facciamo a gara sul numero inferiore di donne al lavoro. Anzi, sul divario fra uomini e donne al lavoro siamo primatisti assoluti: i peggiori. E anche quelli con la natalità più bassa, quindi inutile tirare in ballo quel tema. Abbiamo due eserciti fuori dal lavoro, composti di giovani e donne, e non gestiamo l’afflusso regolare di immigrati. Sommando le cose impoveriamo il mondo del lavoro, così impoverendo la produzione che a sua volta impoverisce l’offerta di salari.
Sono questi gli elementi dell’Italia sdoppiata: dinamica e competitiva da una parte, in fondo alle classifiche sul lavoro dall’altra; con meno lavoratori della media europea, ma anche quelli cresciuti di più nel 2021; pieni di disoccupati, ma incapaci di trovare lavoratori. Il fatto è che non sono contraddizioni di una realtà, ma due Italia: una sul mercato e che punta alla dignità del lavoro; l’altra fuori dal mondo e che punta ai sussidi.
I fondi europei devono servire a una profonda rievoluzione, rivalutando il lavoro come dignità di vita. Per farlo servono formazione, competizione, meritocrazia, bonifica di rendite e parassitismi. L’alternativa non è uno Stato più sociale, ma la più asociale delle cose: il rattrappimento e la decrescita che incattivisce. Dopo avere annebbiato la mente.
di Davide Giacalone
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