Riforme istituzionali, legare la Lega
Riforme istituzionali, legare la Lega
Riforme istituzionali, legare la Lega
Tutto vero. L’instabilità politica è alta, i governi si susseguono senza combinare granché, il bipolarismo è più una democrazia dell’altalena che un sistema di alternanza, il parlamentarismo oscilla fra la palude e il trasformismo. Dunque delle gran belle riforme, capaci di ridisegnare l’equilibrio dei poteri e dare stabilità governativa all’Italia sono – sarebbero – non solo salutari ma necessarie. Però c’è un però. E non è nemmeno piccolo. Eccolo qua: il capo del governo, Giorgia Meloni, ha preso in mano la situazione e ha disegnato una riforma istituzionale – vuoi con il presidenzialismo, vuoi con il cosiddetto premierato – in cui il regionalismo dell’autonomia differenziata, tanto cara alla Lega, è parte della riforma ma senza la riforma non c’è: simul stabunt aut simul cadent (insieme staranno o insieme cadranno). In quest’ottica le riforme istituzionali sono un modo per neutralizzare o riequilibrare il regionalismo leghista più che l’esigenza di cambiare la forma di governo o addirittura di Stato. Un modo per legare la Lega.
Giorgia Meloni ha fatto di necessità virtù. La Lega, infatti, dopo una serie di alti e bassi elettorali e governativi, ha scelto di puntare sull’autonomia differenziata per una serie di ragioni che riguardano sia il consenso sia gli equilibri interni al partito sia la stessa identità leghista. Dopotutto, la Costituzione è dalla parte della Lega e la politica delle autonomie è né più né meno che l’applicazione del dettato costituzionale come è stato modificato oltre vent’anni addietro dal centrosinistra. Tuttavia, se c’è un partito che mal digerisce il regionalismo ebbene questi è Fratelli d’Italia, che vede nelle differenze delle autonomie locali da un lato una divisione nazionale e dall’altro un ulteriore regresso del Mezzogiorno che arranca proprio sulla questione decisiva dell’autogoverno.
Da qui nasce la necessità della cornice delle riforme istituzionali, che son quasi una sorta di segreto di Pulcinella dell’attuale momento politico. E, naturalmente, da qui nasce anche l’accentuata contrarietà delle opposizioni (Pd e M5S): attendono che contrasti e contraddizioni della maggioranza esplodano. Ma non è detto che accadrà, proprio perché slegare le riforme non conviene a nessuno. Ecco perché oggi l’ipotesi più percorribile è il non meglio precisato premierato che non dispiace nemmeno a una parte dell’opposizione: il Terzo polo. Se, infatti, il presidenzialismo (o il semipresidenzialismo, come in Francia) si porta dietro un cambiamento radicale rispetto al parlamentarismo, l’ipotesi del premierato potrebbe essere una via di mezzo o un correttivo del parlamentarismo per garantire stabilità all’esecutivo e riconoscere più poteri (e connesse responsabilità) alla figura del capo del governo. La definizione precisa del premierato – uscendo dalla formula vaga del “sindaco d’Italia” giacché l’Italia, pur fatta dai Comuni, non è un Comune – è decisiva.
Giovanni Sartori, che di sistemi costituzionali e democratici se ne intendeva non poco, aveva un pessimo giudizio del premierato. In Israele fu prima realizzato e poi accantonato. Il precedente dovrebbe far riflettere. E piuttosto che procedere verso l’elezione della figura del capo del governo – mentre il capo dello Stato sarebbe eletto dal Parlamento – sarebbe opportuno essere ancora più pragmatici e precisi: puntare al rafforzamento della figura del presidente del Consiglio, riconoscendogli i poteri di nomina dei ministri e di scioglimento del Parlamento ma facendo cadere l’elezione diretta. Eppure, in questa girandola di ipotesi, rimane fermo un punto: le riforme concepite come rimedio all’autonomismo leghista. Che il cielo ce la mandi buona.
di Giancristiano DesiderioLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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