La rielezione di Mattarella a Presidente della Repubblica ha dato certezze istituzionali necessarie in questo momento, ma le elezioni del 2023 aprono al quesito: Prevarrà ancora la scelta tecnica o si lascerà il campo a quella politica?
Sono stati giorni «tribolati» quelli che hanno portato alla rielezione. «Anche per me», sillaba con compunzione nell’aula di Montecitorio Sergio Mattarella. Sono stati giorni tribolati e altri ne verranno. Perché il bis ha dato certezze sia istituzionali che di governo con la permanenza a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Ma il raddoppio dell’incarico quirinalizio tutto sarà tranne che la fotocopia del settennato appena trascorso. Sarà un bis dove la melodia non potrà essere ripetuta ma necessariamente e obbligatoriamente aggiornata all’intelaiatura dell’Italia che uscirà dalle elezioni del 2023.
Già: il punto è questo; il paradosso sta qui. Mattarella è stato rieletto in un contesto che potremmo definire di conservazione; un riflesso condizionato di congelamento. Il coraggio di una scelta diversa non è arrivato, non poteva arrivare da un Parlamento confuso e balcanizzato che pure, a un certo punto, si è saputo ribellare all’afasia inconcludente dei vari leader, indicando la strada della rielezione.
Ma un presidente riproposto per stabilizzare dovrà gestire il più grosso cambiamento costituzionale mai attuato: il taglio dei parlamentari che cambia in profondità gli equilibri negli organismi istituzionali previsti dalla Carta. E lo sforzo di un Paese per debellare il Covid e gestire al meglio i miliardi di Bruxelles.
Tutto sarà il bis tranne che un periodo di stasi. E sbaglia chi compulserà periodicamente l’orologio sentendosi montare dentro la domanda: ma quando si dimette? Non è questo lo spartito che verrà seguito dal Colle. Fino alla primavera prossima la moral suasion del capo dello Stato si snoderà quale supporto all’azione governativa di contrasto alle emergenze.
Poi però dopo il responso delle urne lo scenario politico muterà radicalmente. Indipendentemente se sarà stato varato o no un nuovo meccanismo elettorale, chi avrà vinto reclamerà il potere di governare. È quello il Rubicone che Mattarella si troverà di fronte.
L’atto più significativo del settennato trascorso è stato la chiamata di Mario Draghi e l’affidamento a lui, supertecnico, dell’incarico di allestire un esecutivo. Ma una volta che gli italiani si saranno espressi con il loro voto e se – come tutto lascia presagire – Draghi resterà estraneo alla corrida fra partiti e schieramenti, bisognerà trovare un nuovo equilibrio che consenta di non perdere per strada i risultati ottenuti.
Perché la legislatura finisce nel 2023 ma il Recovery dura fino al 2026. Sarà ancora possibile contare su Draghi per consolidare il lavoro fatto? Sarà ancora la scelta tecnica a prevalere o dovrà necessariamente lasciare il campo a quella politica?
È per questo, per la consapevolezza delle difficoltà che lo attendono, che Mattarella ha fatto un discorso che è apparso un intervento programmatico, da presidente del Consiglio più che della Repubblica. Non per tracimare dai suoi compiti: Mattarella è uomo tutto d’un pezzo, delle istituzioni e non ammetterebbe sconfinamenti di ruolo.
Bensì perché nei prossimi dodici mesi o ci sarà un forte e complessivo cambio di passo oppure la problematicità evidenziata dalla terribile settimana dei Grandi elettori crescerà a dismisura.
La parola chiave usata dal presidente-bis è stata «dignità». Dignità del Parlamento, dei partiti, dei corpi intermedi. E dignità da parte della magistratura – forse la parte più sentita del discorso di Mattarella – nel ritrovare autorevolezza, prestigio, credibilità. Il suo secondo settennato sarà di passaggio dal vecchio al nuovo. Galleggerà nell’aria come il castello dei Pirenei di Magritte. Toccherà alla politica fargli toccare terra.
di Carlo Fusi
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