Salario politico
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Salario politico
Mentre Giorgia Meloni – magari cercando di imparare a memoria la composizione del Cnel – dall’altra parte dell’Adriatico immagina divertita i militanti Pd e M5S in giro sotto gli ombrelloni a raccogliere firme per il salario minimo, forse è il caso di riavvolgere il nastro degli ultimi giorni e provare a osservare la vicenda da un angolo visuale diverso. La prima considerazione è cosa diavolo sia saltato in mente alla presidente del Consiglio, per convocare un vertice extraparlamentare con i leader dei partiti di opposizione per discutere di una norma certo importante – ma non esaustiva per l’occupazione – come gli stessi proponenti riconoscono. La seconda è in virtù di quale ghiribizzo i capi della minoranza hanno accettato un invito per andare a palazzo Chigi e sentirsi ripetere cose che conoscevano e che avevano già bocciato. A entrambi andrebbe sottolineato, con un misto di stupore e preoccupazione, che per fare o disfare le leggi c’è una sede istituzionalmente stabilita che si chiama Parlamento, il quale rappresenta il perno del sistema democratico. Dove non esiste o è ridotto allo stato larvale sguazzano i regimi autoritari. In Italia ne abbiamo conosciuto uno il cui conducator non a caso minacciava di trasformare quelle aule in un bivacco di suoi manipoli in camicia nera.
Andiamo avanti. Nel corso del confronto la padrona di casa, con un guizzo decisamente surreale, si è adagiata su un organismo che è sì costituzionale, ma che dal dopoguerra a oggi giaceva in un sepolcro di indifferenza. E anche qui: il Cnel può anche produrre un testo, ma poi solo il Parlamento – non un consesso riunito in una stanza affrescata – può dargli forza di legge. Tutto il resto è propaganda che va bene per le autocelebrazioni, di una parte e dell’altra. In altre parole: fuffa mediatica.
Obiezione. Ma come, per una volta che governo e opposizioni si parlano e si confrontano su un tema delicato, parte la critica e la denegazione? Giusto. Infatti parlarsi e “riconoscersi l’un l’altro” è alla base della corretta dialettica democratica. Solo che è una metodologia che andrebbe – e anzi è obbligatorio che sia – impiegata per definire le cosiddette regole del gioco, visto che la storia anche recente ci insegna che quando sono prevalsi gli impulsi a fare da soli ci si è schiantati contro il muro del rifiuto popolare.
Dunque ben venga la trattativa che parte da sedi meta-parlamentari, a patto che riguardi appunto le architravi del sistema: la forma di Stato, presidenziale o altro per intenderci. Oppure la giustizia con la separazione delle carriere. Casi in cui bisogna mettere mano alla Costituzione e in cui più la riscrittura è condivisa, meglio è. Sapendo che l’ultima parola spetta sempre e comunque al Parlamento o ai cittadini se manca uno specifico quorum approvativo. Al contrario, dispiegare una metodologia di così forte spessore e impatto per discutere di una norma che il governo può adottare o no, che le opposizioni possono proporre o no, ma che rientra nel perimetro del normale confronto politico, minaccia di produrre distorsioni non di poco conto ed effetti nefasti. Nel momento in cui la Meloni spiega che l’ha fatto perché quando era all’opposizione mai un governo l’aveva convocata su un singolo provvedimento, pacatamente e serenamente le andrebbe ricordato che esiste la separazione dei poteri, e che ciò che è di quello legislativo non deve essere confuso con ciò che appartiene all’Esecutivo.
Invece tutto diventa strumentale. Meloni potrà rigettare la proposta sul salario minimo rifacendosi alla contrarietà di un elemento “terzo”; le opposizioni inneggeranno all’unità raggiunta a scapito di un altro colpo di maglio alle Camere. La lezione del demagogico taglio dei parlamentari non è servita.
di Carlo Fusi
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