SaldaMente
Cosa conterrà la legge di bilancio lo sapremo domani quando sarà approvata in Consiglio dei ministri. Ma sappiamo già che molto di quel che verrà annunciato cercherà di coprire o addolcire la sostanza

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Cosa conterrà la legge di bilancio lo sapremo domani quando sarà approvata in Consiglio dei ministri. Ma sappiamo già che molto di quel che verrà annunciato cercherà di coprire o addolcire la sostanza
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Cosa conterrà la legge di bilancio lo sapremo domani quando sarà approvata in Consiglio dei ministri. Ma sappiamo già che molto di quel che verrà annunciato cercherà di coprire o addolcire la sostanza
Cosa conterrà la legge di bilancio lo sapremo domani quando sarà approvata in Consiglio dei ministri. Ma sappiamo già che molto di quel che verrà annunciato cercherà di coprire o addolcire la sostanza.
Il bilancio sarà saldamente ancorato alla volontà di chiudere la procedura d’infrazione, aperta dalla Commissione europea nel 2024. Intento più che lodevole, condito da un evidente successo: il 3% di deficit viene centrato nel 2025, anziché attendere il 2026. Bene. Ma posto che la crescita della ricchezza prodotta sarà inferiore al previsto (ci fermeremo allo 0,5%), quali spese sono state tagliate per ottenere quel risultato?
Poca roba e inadeguata a conseguire l’obiettivo, che è stato colto per un’altra via: aumento della pressione fiscale, che è cresciuta nettamente nel 2024 (arrivando al 42,5% del Pil) e cresce anche nel 2025 (si prevede un 42,8%). Chi ha voglia di polemizzare faccia pure ma non serve a niente, specie se non si specifica in quale altro modo si sarebbe potuto ridurre il deficit. Mentre è onesto ricordare che chi oggi governa aveva assicurato il contrario in campagna elettorale.
Ma non sono annunciati sgravi fiscali? Sì, ma in un festival del “Vorrei ma non posso”, che porterà vantaggi limitati ai beneficiari e rischia di scassare il senso stesso della tassazione progressiva dei redditi, se per gli scaglioni più alti si sterilizza il ribasso adottato per quelli precedenti. Un’altra (falsa) flat tax (sugli aumenti di stipendio) infittisce la giungla fiscale. Così come pasticciare sull’età pensionabile – cancellando un sano meccanismo voluto dalla maggioranza di Berlusconi, con Meloni ministro – serve soltanto a rendere ancora più arzigogolato, incomprensibile e costoso il sistema.
Per evitare queste brutture il governo sperava di prendere i soldi alle banche. Vedremo come andrà, però è singolare: per avere una banca statale si usano i soldi del contribuente, si mettono nel Monte dei Paschi di Siena e con quelli si scalano altre banche; poi, per coprire i buchi di bilancio, si chiedono alle banche i soldi per non scucirne ancora di più ai contribuenti.
Ed è anche suggestivo che si passi dai salvataggi alle spremiture, così indebolendo la sicurezza dei conti bancari e innescando futuri salvataggi. Sarebbe meglio stabilire che alle banche i soldi non si danno e da loro non si prendono se non per la normale tassazione, salvo irrobustire meccanismi di sicurezza che tutelino i clienti da eventuali fallimenti (e ci sarebbe il Mes ancora da ratificare).
Il ministro dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, ha detto cose per le quali vorremmo attaccare il suo ritratto in sala mensa (se la avessimo) e adeguatamente idolatrarlo: 1. «Ricordo [che] parto da -80 miliardi», ovvero gli interessi sul debito pubblico; 2. «Non fare nuovo debito per le nuove generazioni è un principio morale, più che contabile».
Giustissimo e bravissimo. Ma è l’opposto di quel che la Lega ha sostenuto per molte campagne elettorali. Non diverso: opposto. Sia sugli interessi che sui debiti. Questo pone un problema, perché per guidare un Paese ai necessari cambiamenti (altrimenti si resta inchiodati alla contabilità di sussistenza) occorre saper essere chiari e credibili. Farsi eleggere per fare il contrario di quel che si disse non è l’approccio più promettente.
Proprio in queste ore è utilissimo guardarsi nello specchio francese: per far stare in piedi un governo hanno deciso di rinviare a un indefinito domani la riforma delle pensioni, senza la quale non stanno in piedi i conti pubblici. Guardiamola con attenzione quella scena, perché quando la (traballante) stabilità dei politici divorzia dal fare il necessario per la stabilità collettiva è segno che le cose andranno assai male.
Adesso, con tutto il rispetto, chi se ne importa delle elezioni regionali. Mancano due anni a quelle politiche e sarebbe sano e prudente che i partiti si mettessero saldamente in testa che occorre usare la lingua della realtà e trovare proposte che non siano quattro rimasticature di demagogie rigurgitate. Altrimenti prima se ne vanno gli elettori e poi se ne vanno loro.
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