Salvini-Schlein, la (s)coppia
Salvini-Schlein, la (s)coppia
Salvini-Schlein, la (s)coppia
Nella politica italiana vive e agisce una coppia – inverosimile, improbabile, surreale – che contribuisce a squilibrare il già pericolosamente sconnesso sistema italiano. È una coppia che agisce l’uno all’oscuro dell’altra coltivando l’eterogenesi dei fini e che, grattando la vernice della superficialità, mostra singolari nuance. È la coppia formata da Matteo Salvini ed Elly Schlein.
Che c’entrano il vicepresidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, emblema del sovranismo e degli interessi della “piccola patria” lombarda, con la segretaria del Pd, vessillo della sinistra-sinistra, nume tutelare dei diritti universali delle minoranze, immaginifica leader di una opposizione che non prevede l’arrivo al governo se non per collassi altrui? C’entrano. A patto di seguire un filo di ragionamento neppure troppo tortuoso e andare alla sostanza della leadership del Terzo millennio. A patto cioè di voler scorgere ciò che nella disunione unisce come una calamita che attrae e salda i detentori di una carenza: la mancanza di credibilità. Immenso buco nero in cui affondano ambizioni, progetti, identità.
Partiamo da Salvini. Il più roccioso dei ministri in realtà la credibilità l’aveva agguantata superando d’un balzo la sindrome di Tantalo. C’era riuscito svuotando il M5S dei suoi umori di destra, assorbendo la voglia degli italiani di un Capo cui rivolgersi e affidarsi. Fino ad arrivare a quell’etereo ed esaltante 34% delle Europee del 2019. Poi di colpo quel consenso così com’era arrivato si è dileguato, lasciando al Capitano un esiguo 8% buono per fare alleanze ma privo del segno del comando. La credibilità di Commander in chief (in verità mai troppo coltivata) si è liquefatta nel momento in cui Salvini ha pensato che l’Italia fosse una estensione di TikTok, con le merendine al posto dei fatti, i tapis roulant al posto dei provvedimenti, il tifo per il Milan al posto dell’emergenza in Emilia-Romagna. L’apoteosi del consenso è sparita e non tornerà. Salvini può fare gioco di interdizione dentro al governo ma non può tirare la corda fino a spezzare l’unità dell’esecutivo Meloni: in quel caso sarebbe travolto dai suoi stessi elettori. Il suo destino non è più quello dello junior partner: tutt’al più di child partner, inseguendo legittime battaglie identitarie ma non potendo più coltivare il sogno di sedere un giorno sulla poltrona di Palazzo Chigi.
La Schlein, al contrario, il quantum di credibilità non se l’è ancora guadagnato: resta ancora impalpabile. Nessuna sorpresa. Ha vinto la guerra del Nazareno contando sui voti dei passanti e non su quelli del corpaccione del partito che aveva scelto il suo ex capo, Stefano Bonaccini. Quale credibilità può avere una leader che non è tale nel suo perimetro di gioco? Schlein chiede di mettersi comodi perché hic manebimus optime. Senza accorgersi che è già cominciato il lavorìo per segare la poltrona su cui siede: eterno passatempo della sinistra, peraltro. Anche qui: è coltivabile il sogno di succedere a Giorgia?
Bene. Ma allora cosa lega queste due figure ancora fortemente irrisolte? Beh, così a caso: il barcollìo sull’Ucraina, ufficialmente a favore ma sotto sotto no; la riluttanza speculare sulla Nato: ci siamo dentro ma chissà se un giorno…; il ruolo dei mercati e il vellicamento delle spinte contro la concorrenza; l’impulso a ricorrere agli slogan più che al lavoro sporco riformista; le modifiche costituzionali: magari sono giuste ma se non si fanno è meglio perché si rischia di favorire gli avversari.
Lo spessore della credibilità è sottile come carta velina e se il governo affonda sul Pnrr pazienza: il “tanto peggio tanto meglio” non va mai fuori corso.
Carlo Fusi
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