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Sciopero di medici e infermieri

Scioperati, lo sciopero nazionale di medici e infermieri

Lo sciopero nazionale di medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni della galassia pubblica in camice bianco ha fatto passare ore di inferno ai pazienti

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Scioperati, lo sciopero nazionale di medici e infermieri

Lo sciopero nazionale di medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni della galassia pubblica in camice bianco ha fatto passare ore di inferno ai pazienti

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Scioperati, lo sciopero nazionale di medici e infermieri

Lo sciopero nazionale di medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni della galassia pubblica in camice bianco ha fatto passare ore di inferno ai pazienti

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Lo sciopero nazionale di medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni della galassia pubblica in camice bianco ha fatto passare ore di inferno ai pazienti

Premessa doverosa: lo sciopero è un diritto sacrosanto, evviva lo sciopero. E il cielo preservi le istituzioni che lo rispettano. Con le giuste motivazioni – e nell’alveo dei limiti previsti dalla legge – l’astensione dal lavoro è un formidabile strumento per rivendicare, talvolta anche pretendere a nome di una o più categorie di lavoratori. Nell’interesse di piccole o grandi comunità e – a cascata – anche della collettività. L’importante è però che ci siano ragionevoli motivi per farlo, perché certe volte questo non accade. O meglio non appare così evidente.

Parliamo – lo avrete intuito – dello sciopero nazionale di medici, dirigenti sanitari, infermieri e altre professioni della galassia pubblica in camice bianco, che ha fatto passare (almeno) 48 ore di inferno ai pazienti del Servizio sanitario nazionale: le prime 24 per assorbire lo shock di sapere che sarebbero stati rinviati 15mila interventi chirurgici, 100mila visite specialistiche, 50mila esami radiografici e via calcolando; le altre 24 per masticare amaro nel ragionare sui motivi di questo incrociar di braccia.

Ecco, i motivi. Ne abbiamo contati dieci, fra quelli principali enunciati dalle sigle sindacali in cabina di regia dello sciopero: dai soldi insufficienti a finanziare i contratti di lavoro alla mancata detassazione di una parte della retribuzione; dalla non attuazione della normativa sulla depenalizzazione dell’atto medico e sanitario a un insoddisfacente incremento dell’indennità infermieristica (per giunta non estesa alle ostetriche); dall’assenza di risorse per l’immediata assunzione di personale al problema della pubblica sicurezza negli ospedali. E avanti così, scorrendo righe su righe fra dimenticate esigenze degli specializzandi, mancato riconoscimento del carattere usurante di certi profili, fino ad aspetti talmente tecnici da risultare incomprensibili a chi non mastica certi contesti.

L’impressione che se ne ricava è quella di un gigantesco calderone in cui è stato versato di tutto un po’. D’accordo, la nostra sanità non brilla per efficienza amministrativa e organizzativa, è rosolata da liste d’attesa interminabili e nell’immaginario dell’italiano medio è in testa a tutte le classifiche negative immaginabili. Riesce difficile capire, però, come uno sciopero nazionale con le motivazioni di cui sopra possa davvero incidere in modo concreto perlomeno sulle aspettative dell’utente finale: il cittadino paziente. Proviamo a ragionarci sopra.

A cominciare dal destinatario dell’astensione dal lavoro. A chi sono dirette le lamentele: allo Stato, forse? Se fosse così sarebbe singolare, visto che la gestione della sanità pubblica è affidata alle Regioni. E che soprattutto le Regioni non l’amministrano tutte nello stesso modo (cioè male, come vuole la vulgata): stando al più recente monitoraggio dei Livelli essenziali di assistenza sanitaria, un cittadino residente in una regione a scelta fra Lombardia, Piemonte, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Liguria o Lazio – ma anche Puglia e Basilicata, per dire – ha decisamente poco di cui lamentarsi del suo rapporto col Servizio sanitario nazionale. Che senso ha dunque proclamare uno sciopero nazionale, col rischio di danneggiare realtà territoriali e perfino strutture ospedaliere locali che funzionano bene? Non sarebbe più logico concentrare le proteste là dove effettivamente la sanità è gestita male?

Dice: è una questione di risorse, mancano i soldi. Sarà, poi però si scopre con la Corte dei conti che del totale dei fondi stanziati dallo Stato nel 2023 per far fronte all’emergenza da liste d’attesa (oltre 483 milioni di euro, non proprio uno scherzo), è stato speso meno del 30%. E che in alcune Regioni questi soldi, invece che per abbattere i tempi biblici per le prestazioni sanitarie, sono stati usati per ripianare i disavanzi di bilancio.

Qualità (del servizio) non fa necessariamente rima con quantità (dei fondi stanziati). Senza un’efficace ed efficiente capacità organizzativa, i soldi da soli non faranno mai la differenza.

di Valentino Maimone

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