Guardate le immagini dell’ultimo Consiglio europeo, appena concluso a Versailles. Guardate quel grande tavolo quadrato, con tante persone sedute, che parlano a turno. Taluno ci vedrà l’impotenza della democrazia, il caos delle tante posizioni diverse, il lavorio della mediazione politica, il tempo perso inseguendo un compromesso. Facile che siano gli stessi che vedendo Putin in pizzo al lungo tavolo da pazzo, vi vedono la forza dell’uomo al comando. Io ci vedo il potere dell’impotente, che ha bisogno di simboli per far credere il falso. Mentre il tavolo quadrato e le tante voci mi dicono che quella è la nostra forza, quella la nostra ricchezza. La mediazione e i compromessi sono faticosi, ma fruttuosi. Noi vinciamo. L’autocrate perde. Soprattutto, attorno a quel tavolo affollato di voci e Paesi, si trova la cosa più preziosa: la sola sovranità possibile, quella europea.
Veniamo da anni in cui la nostra superiorità democratica (esatto: superiorità, perché il relativismo non è apertura, ma fuga dalla responsabilità) ha difeso il diritto di parola di correnti che volevano dirsi “sovraniste” e, nell’esserlo, contestavano la sovranità europea. Ci sta, è una tesi, anche forte, venata di un nazionalismo che non osa chiamarsi tale, ma è comunque un sentire legittimo. Ha trovato consensi crescenti da noi, in Francia, Germania, Austria; nel Regno Unito ha fatto guai. In poche ore è emerso che i sovranisti nostrani erano al servizio del sovrano altrui. Mandare al macero le foto servirà loro a nulla. I sovranisti d’Ovest si sentivano commilitoni di quelli a Est, poi è arrivata l’invasione criminale dell’Ucraina e a Est s’è chiesta protezione all’Unione europea e alla Nato, nel mentre suggerivano ai presunti amici di vergognarsi per l’avere tifato a favore dell’impero dell’Est. La storia corre veloce, in certe giornate. Ma torniamo al tavolo europeo.
Francia e Italia dimostrano una consonanza che da anni si riteneva necessaria. Finalmente. Propongono un secondo Recovery, altro debito comune, da impegnarsi sul fronte energetico e della difesa. Chi ragiona diversamente osserva che ci sono ancora i soldi del primo, che il solo Paese ad avere preso tutto – regali e prestiti – è l’Italia, sicché avanzano fondi e non ha senso accendere altri debiti se prima non li si è esauriti. I primi fanno leva sulla minaccia per approfondire l’integrazione. I secondi guardano ai bilanci, per evitare che gli squilibri portino disintegrazione. Tesi diverse. Significa che siamo divisi? L’opposto: che siamo uniti nel più ricco e bello dei mondi possibili, quello per sua natura imperfetto e che procede per approssimazioni, che condivide gli obiettivi ma mette in campo idee e interessi diversi per arrivarci. Il punto non sono i soldi, che non sono mancati e non mancheranno, ma la natura della loro garanzia e le conseguenze del loro indirizzo. Che sono scelte politiche, quindi è bene che esistano approcci diversi.
Da noi, nelle democrazie, si tiene conto anche di chi protesta perché il pieno all’auto costa di più. Da Putin si nega il diritto di migliaia di madri di piangere il cadavere di figli mandati a crepare con l’inganno. Da noi si perde più tempo a discutere. Da lui il tempo lo ricorderà come l’uomo che distrusse la Russia. Il che non gli dispiace, ebbro di morte altrui e gloria propria. Dispiace a noi, che amiamo la Russia e i russi e, per questo, chiediamo loro di liberarsi dal demone.
Che la sola sovranità possibile sia quella europea lo vedeva già Luigi Einaudi, un secolo addietro. Lo insegnò agli antifascisti. Lo videro economisti e letterati in ogni parte d’Europa. Lo videro i popoli della riconquistata pace. Lo persero di vista i molti contemporanei che credevano eterna la meravigliosa stagione iniziata nel 1989. Ora lo vedono tutti, solo che non abbiano venduto i loro occhi o non se li siano cavati in nome della plurisecolare avversione alle fatiche della libertà.
di Davide Giacalone
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