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Travaglio PD

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Dopo la pesante sconfitta in campo elettorale, è in corso un vero e proprio travaglio nel PD, sul cui futuro se ne sentono di cotte e di crude.

Travaglio PD

Dopo la pesante sconfitta in campo elettorale, è in corso un vero e proprio travaglio nel PD, sul cui futuro se ne sentono di cotte e di crude.
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Travaglio PD

Dopo la pesante sconfitta in campo elettorale, è in corso un vero e proprio travaglio nel PD, sul cui futuro se ne sentono di cotte e di crude.
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Sul Pd e sul suo futuro se ne sentono di cotte e di crude. Improvvisamente, gli stessi che hanno passato un quarto di secolo a respingere sdegnosamente ogni critica alla sinistra ufficiale riversano su di sé un mare di critiche, le stesse che fino a ieri – quando a formularle erano osservatori esterni – si ostinavano a ignorare. È come se la sconfitta avesse loro aperto gli occhi o avesse rotto l’incantesimo che per tanti anni ha loro permesso di non guardarsi allo specchio. Ora, improvvisamente, si accorgono che non si sono mai seriamente occupati dei veri deboli, che per l’immigrazione irregolare non hanno mai avuto soluzioni, che l’ostinazione sui diritti civili a scapito dei diritti sociali è stata un errore, che il politicamente corretto è “una boiata pazzesca”, per dirla alla Fantozzi.

E parte la sarabanda. C’è chi chiede un congresso subito, chi lo vuole a primavera, chi vuole sciogliere il partito, chi dice che chiunque abbia avuto ruoli nei Ds o nella Margherita dovrebbe fare un passo indietro, chi si accorge che nel partito comandano i maschi e le donne aspettano il loro turno, chi si candida a nuovo segretario/segretaria, chi dice che lo farà «ma solo se sarà utile» (somma ipocrisia). E poi ci sono gli intellettuali, gli scrittori, gli artisti, ognuno con la sua ricetta per rifondare il Pd, per cambiargli nome, per modificare il simbolo. Se non vuole continuare a essere solo un “partito radicale di massa”, il nuovo partito ha solo due prospettive fra cui scegliere: dare ragione ai suoi scissionisti di destra (Renzi e Calenda) e provare a diventare un partito liberaldemocratico; oppure dare ragione ai suoi scissionisti di sinistra (Bersani e Speranza) e provare a diventare un partito socialdemocratico La «forza del passato», come la chiama Veronesi, è enorme. Una furia iconoclasta travolge tutto e tutti. In un impeto vitalista-volontarista sembra che tutto possa essere messo in discussione, che si possa cancellare il passato, ripensare ogni cosa e ricominciare da zero.

Ma non è così. La «forza del passato», come la chiama Veronesi, è enorme. Vissuti per 28 anni – dalla discesa in campo di Berlusconi in poi – nella credenza di rappresentare “la parte migliore del Paese”, non è facile resettare tutto e ricominciare da capo. Il senso di superiorità morale della sinistra ufficiale – che si sente l’unica forza veramente responsabile, la sola che ha a cuore le sorti del Paese, la vera custode delle “grandi battaglie di civiltà” – è difficile da deporre.

Ma basterebbe fare quel gesto, presentarsi per la prima volta non come i custodi del Bene ma come una delle tante offerte politiche in campo? Temo di no, temo che non basterebbe. Perché il Pd è in una trappola diabolica. Se non vuole continuare a essere solo un “partito radicale di massa”, il nuovo partito ha solo due prospettive fra cui scegliere: dare ragione ai suoi scissionisti di destra (Renzi e Calenda) e provare a diventare un partito liberaldemocratico; oppure dare ragione ai suoi scissionisti di sinistra (Bersani e Speranza) e provare a diventare un partito socialdemocratico. Il problema è che entrambe queste prospettive sono ostacolate dal fatto che le relative caselle sono già occupate. A destra c’è il terzo polo, a sinistra ci sono i Cinque Stelle.

Se il Pd optasse per la strada liberaldemocratica, non si capisce perché gli elettori non dovrebbero preferirgli Calenda e Renzi, che quella strada hanno tracciato senza ambiguità. Se optasse per la scelta socialdemocratica, verrebbe invischiato in un corpo a corpo con i Cinque Stelle, per stabilire chi sia la “vera sinistra”. Una lotta molto difficile, perché rischierebbe di risolversi in una critica del reddito di cittadinanza e in qualche piccola frizione sui temi che non vedrebbero perfettamente allineati i due partiti di sinistra. Dopotutto, le altre ‘anomalie’ dei Cinque Stelle si riducono a mere differenze di grado: sono ancora più giustizialisti del Pd, ancora più ostili a trivelle e simili, un po’ più attenti alle esigenze delle piccole imprese, un po’ meno indulgenti sull’immigrazione irregolare.

Bastano queste modeste differenze a giustificare la coesistenza di due grandi partiti di sinistra?

di Luca Ricolfi

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