Tutti zitti, tutti complici
La vittoria di Giorgia Meloni si contrappone ai due sconfitti per eccellenza: Letta e Salvini. Entrambi molto diversi ma con un grande punto in comune: la correità di chi li ha affiancati.
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La vittoria di Giorgia Meloni si contrappone ai due sconfitti per eccellenza: Letta e Salvini. Entrambi molto diversi ma con un grande punto in comune: la correità di chi li ha affiancati.
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La vittoria di Giorgia Meloni si contrappone ai due sconfitti per eccellenza: Letta e Salvini. Entrambi molto diversi ma con un grande punto in comune: la correità di chi li ha affiancati.
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La vittoria di Giorgia Meloni si contrappone ai due sconfitti per eccellenza: Letta e Salvini. Entrambi molto diversi ma con un grande punto in comune: la correità di chi li ha affiancati.
C’è la splendente solitudine di chi ha vinto: Giorgia Meloni. E c’è il duopolio di chi ha perso: Matteo Salvini ed Enrico Letta. Questi ultimi sapientemente bilanciati dagli elettori su ambedue gli schieramenti. Allora uno per uno non fa male a nessuno e la chiudiamo lì? Beh, non esattamente. Per i pigri di mente sarebbe molto comodo. Per tutti gli altri è impossibile.
Oltre a camminare entrambi sul sentiero del ridimensionamento – ma Letta ha già annunciato che si dimetterà mentre l’ex Capitano fa spallucce e si ritiene inamovibile – esiste un’altra dimensione che accomuna i due sconfitti: la correità di chi li ha affiancati. Né nella Lega né nel Pd, infatti, prima e durante la campagna elettorale (per capirci, da quando Draghi è stato fatti fuori e i leader hanno chiuso a chiave le porte dei loro uffici per vergare con tranquillità l’elenco dei prescelti al soglio parlamentare: grazie Rosatellum!), c’è stato qualcuno che ha aperto bocca per dire: no, così non va. Al massimo qualche mugugno, tanto per non perdere l’abitudine. Ma nessuna iniziativa per differenziarsi sulle scelte decisive.
Ora due ex ministri da tempo ai margini del Carroccio come Maroni e Castelli invocano un cambio di leadership. Tutti gli altri fino a un minuto prima dell’apertura dei seggi hanno condiviso nelle virgole le parole d’ordine e le decisioni di Salvini. Adesso i governatori leghisti si allarmano, ma non c’è stato nessun Zaia, nessun Fedriga o nessun Giorgetti che si sia alzato per dire al loro capo: guarda, è meglio che Putin te lo scordi. Tutti zitti e Mosca, con la maiuscola.
Ancora martedì il Consiglio dei capataz padani non ha trovato di meglio da fare che schierarsi a sostegno del Conducator, reclamando per lui un posto di primo piano nel governo che verrà. Le ragioni della sconfitta? Quali ragioni e quale sconfitta, non siamo forse nella coalizione che ha stracciato la sinistra, what else?
Idem nel Nazareno. Tranne alcune voci significative come quella di Tommaso Nannicini, nessuno ha fiatato sul taglio dei parlamentari diventato scalpo per l’alleanza con Giuseppi punto di riferimento fondamentale dei progressisti. Tutti zitti anche quando Letta, invece di impegnarsi sulla riforma elettorale, ha detto che il bipolarismo tra lui e la Meloni andava benissimo. Salvo poi abbaiare al pericolo fascista (anche qui mutismo generale) o ritrovarsi isolato senza appoggi né dal M5S né dal terzo polo, stringendosi a fianco di Bonelli e Fratoianni che però al governo assieme mai e poi mai. Tutti zitti, tutti complici.
Ma fra Letta e Salvini ci sono anche differenze: sostanziali. Il primo, facendosi da parte, schiude un processo che oltre i nomi dovrebbe riguardare la sostanza politica o, per essere abrasivi e non ipocriti, l’utilità stessa di un Pd come visto finora. Mentre sul capo del leader leghista pende un interrogativo non da poco: chi gestirà le trattative per la nuova maggioranza e il nuovo governo? Lo farà lui da dimezzato oppure ne resterà fuori, giubilato alla presidenza del Senato? E in quel caso chi lo sostituirà, uno dei Cuor di Leone che lo ha accompagnato fin sul ciglio della voragine di domenica scorsa?
Del resto, neppure al Nazareno piace interrogarsi su ciò che è successo, magari poggiando l’orecchio a terra e ascoltando il battito del cuore profondo del Paese per cercare di mettersi in sintonia. Invece è cominciato lo sport preferito, la corsa alle autocandidature. Meglio, molto meglio, un congresso dove le correnti possano fare i loro giochetti.
Senza fretta. Tanto, salvo sfracelli nel destra-centro, bisogna stare cinque anni all’opposizione. Una vita.
di Carlo Fusi
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