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Italia

Viceré e governatori

Ecco perché l’istituto regionale, introdotto nella Costituzione negli anni ’70, ha avuto una buona riuscita al Nord ma non al Sud

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Ecco perché l’istituto regionale, introdotto nella Costituzione negli anni ’70, ha avuto una buona riuscita al Nord ma non al Sud

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Ecco perché l’istituto regionale, introdotto nella Costituzione negli anni ’70, ha avuto una buona riuscita al Nord ma non al Sud

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Ecco perché l’istituto regionale, introdotto nella Costituzione negli anni ’70, ha avuto una buona riuscita al Nord ma non al Sud

Perché al Sud ci sono i viceré e al Nord ci sono i governatori (meglio ancora e correttamente i presidenti della Giunta regionale)? La risposta è bene che sia diretta e senza ipocrisia: perché al Nord ci sono le Regioni e al Sud ci sono dei feudi. Conta poco notare che in Lombardia i governatori sono sempre del centrodestra e che Luca Zaia è in sella da quasi quindici anni, perché in questi casi nel rapporto fra presidenti e Regione prevale la seconda sui primi. Al di sotto del Garigliano la relazione invece s’inverte: vien prima il presidente e poi la Regione. Così nascono i viceré che hanno i loro vicereami, appunto. Così si spiega che don Vincenzo De Luca si sta preparando la situazione legislativa e politica a sua immagine e somiglianza per procedere nonostante il Pd – dal titolo del suo libro programmatico “Nonostante il Pd”, edizioni Piemme – alla nuova candidatura per il terzo mandato. Così, ancora, si spiega che da Napoli a Bari, via autostrada del Tavoliere meno trafficato del Mezzogiorno, s’incontra l’altro viceré: don Michele Emiliano, che sul terzo mandato ha cambiato (forse) idea per fare spazio ad Antonio Decaro ma non prima, certo, d’aver concordato grazie al Pd la buonuscita di un posto a Palazzo Madama. Ma sui vicereami si potrebbe continuare passando per la Basilicata (dove Vito Bardi è incontrastato) e giungendo in Calabria (dove Roberto Occhiuto tiene d’occhio l’autonomia differenziata ma non nota il disastro calabrese), per poi passare sull’immaginario Ponte di Messina, percorrere l’avventurosa e non meno immaginaria autostrada fino a Palermo e arrivare a Palazzo dei Normanni come se ci fosse ancora Ruggero d’Altavilla. Si esagera? Non esageriamo. «La differenza – diceva Leonardo Sciascia, che di cose meridionali se ne intendeva – la fa lo scirocco che qui entra nelle ossa». Può darsi che il vento del Sud sia diverso dal vento del Nord ma per le cose ventose è meglio lasciare la materia poco afferrabile agli esperti del cambiamento climatico per soffermarsi, invece, sull’invariabilità del clima politico e sociale che è il vero fattore differenziale fra Settentrione e Meridione. È una verità storica che l’istituto regionale, introdotto per dettato costituzionale negli anni Settanta, abbia avuto una sua buona riuscita al Nord (con le dovute eccezioni, certo) e che sia stato un disastro al Sud (senza alcuna eccezione).

Il Mezzogiorno, a guardarlo tutto con un solo colpo d’occhio, sembra quasi il redivivo Regno delle Due Sicilie. Il dramma sta proprio in questo dramma che si può toccare quasi con mano: al momento della nascita dell’autogoverno locale – le Regioni – si assiste al Sud a una nuova feudalizzazione (la definizione è di un ex ministro per il Mezzogiorno, Carlo Trigilia, che peraltro da studioso scrisse e documentò queste cose ben prima di diventare ministro). Bisogna essere chiari su questo punto: giunti alla fine degli anni Sessanta la famosa “questione meridionale” era cosa risolta o quasi e la differenza economica fra Nord e Sud era minima. Ma con la nascita delle Regioni tutto ricomincia. Perché? Perché la “questione meridionale” è in realtà, per dirla con Norberto Bobbio, la «questione dei meridionali» ossia della responsabilità delle classi dirigenti, che invece di governare i territori preferiscono controllarli occupando gli uffici pubblici. Era esattamente questo punto che da un lato faceva puntare a Croce il dito sul «dovere della borghesia delle province napoletane» e dall’altro, in Assemblea costituente, lo rendeva scettico e contrario a introdurre l’istituto regionale. Ahimè, la storia ancora una volta gli ha dato ragione ma sarebbe ora che il Mezzogiorno lo smentisse e gli desse torto.

Di Giancristiano Desiderio

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