“Quel che vide Cummeo” è quel che vide Domenico Rea? Me lo son sempre chiesto e, naturalmente, la risposta è sì. Quel che vide don Mimì lo trasportò sulla pagina con la forza non solo della sua prosa evocativa e sensuale ma anche della poesia vera. Ci sono alcuni racconti – a cominciare dal primo che compone “Spaccanapoli”, intitolato “La segnorina” – che sono vere e proprie liriche in prosa. Poche pagine, poche righe e il ritratto non del personaggio ma del sentimento che lo anima è fatto.
Come si fa una creatura. Non a caso Ruggero Guarini nel saggio che apre il Meridiano e che raccoglie l’opera di Domenico Rea – fu pubblicato sedici anni or sono – parla di «musa creaturale» per indicare il segreto che presiedeva all’atto di nascita della letteratura dello scrittore napoletano che mise al mondo la sua tanto reale quanto fantasiosa Nofi.
Domenico Rea quel che vide lo vide sia nel mondo sia nell’anima del mondo. Questo è il dono della sua letteratura che ci ha offerto cose tra le più belle della storia letteraria del Novecento italiano. Proprio così: italiano, non solo napoletano.
Così a cento anni dalla nascita dell’autore di “Ninfa plebea”, la Bompiani riporta in libreria non solo l’ultimo romanzo con cui lo scrittore vinse lo Strega ma anche il primo libro, che fu la rivelazione di Rea persino a sé stesso: quei racconti di “Spaccanapoli” che spaccano il cuore e la mente di chi legge e che vorrebbe che il racconto di Rea non finisse mai.
Come ci dice il titolo dell’ultimo romanzo, nei racconti di Rea c’è la plebe. Non solo il popolo. Proprio la plebe. Una plebe così vitale, così forte, così cenciosa, così al di là del bene del male che la politica ne ebbe sempre timore e se ne stette alla larga. Perché quando si ha alle spalle e nello stomaco ben digeriti, uomini, donne e cose del Trecento – Boccaccio e santa Caterina da Siena – e il ‘gran secolo’ del Seicento e, poi, naturalmente, Basile, De Sanctis, Mastriani, Imbriani e anche Vico e Croce, allora, ciò che si dilegua dinanzi a tanta vita e poesia è l’ideologia. Non c’è nel Novecento italiano uno scrittore che sia più anti-ideologico di Domenico Rea.
La sua opera, che sia barocca o neorealistica o plebea o più semplicemente bella, è quasi una sorta di educazione sentimentale per sfuggire alle idiozie dell’ideologia che tanta parte letteraria e civile del Novecento ha perseguitato e inguaiato. Molto meglio quel che videro Cummeo e don Mimì.
di Giancristiano Desiderio
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