70 anni di mamma Rai
Settant’anni esatti di televisione in Italia, dalle prime trasmissioni non più sperimentali, inaugurate alle 11 del mattino di quel 3 gennaio 1954
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70 anni di mamma Rai
Settant’anni esatti di televisione in Italia, dalle prime trasmissioni non più sperimentali, inaugurate alle 11 del mattino di quel 3 gennaio 1954
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Settant’anni esatti di televisione in Italia, dalle prime trasmissioni non più sperimentali, inaugurate alle 11 del mattino di quel 3 gennaio 1954
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Settant’anni esatti di televisione in Italia, dalle prime trasmissioni non più sperimentali, inaugurate alle 11 del mattino di quel 3 gennaio 1954
Settant’anni esatti di televisione in Italia. Settant’anni – oggi – dalle prime trasmissioni non più sperimentali, inaugurate alle 11 del mattino di quel 3 gennaio 1954. Irradiate da trasmettitori rigorosamente di fabbricazione americana, General Electric, di per sé un segnale significativo ad appena nove anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. I ripetitori erano posti sul Colle dell’Eremo di Torino, su Monte Mario a Roma e sul nuovo traliccio di Corso Sempione a Milano, che aveva sostituito la torre del Parco Sempione, Torre Littoria nell’etimologia fascista. Il Sud dovrà aspettare altri due anni. Il regime aveva le sue eco nel personale e nei dirigenti della neonata Rai (Radio Audizioni Italiane), che aveva inglobato senza troppi complimenti vertici e maestranze Eiar. L’antefatto è importante, aiuta a ricordare (o apprendere) ciò che eravamo settant’anni fa: un Paese povero, ancora in ricostruzione dalle devastazioni del conflitto, con un tasso di analfabetismo che in alcune aree superava il 50%. Se oggi abbiamo una lingua comune, un’idea riconoscibile d’Italia, di comunità, di Paese, abitudini e persino orari, lo dobbiamo in gran parte alla televisione di Stato, ai programmi della Rai cominciati in quel lontano 3 gennaio 1954.
In tutta la prima fase della sua esistenza il servizio pubblico svolse essenzialmente un ruolo pedagogico e non ci riferiamo soltanto al leggendario maestro Manzi e alle lezioni rivolte all’Italia affetta dall’analfabetismo. Il concetto di ‘Mamma Rai’ prese corpo fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, anche se nessuno allora avrebbe usato questa terminologia. I dirigenti rigidamente ancorati a una visione cattolica – che avevano rapidamente preso il posto di una prima dirigenza di impostazione più laica e liberale – e il fortissimo controllo sull’informazione operata dalla Democrazia cristiana forgiarono la Rai sopravvissuta, nell’immaginario collettivo, alla rivoluzione dei costumi del Sessantotto.
Detto ciò, la tv di Stato in Italia non è mai stata quel monolite che si vuole raccontare. Spazi di sperimentazione, in particolar modo nel varietà in cui per due decenni siamo stati leader mondiali, proiettarono il sentire del Paese nella modernità. Anche il famoso bigottismo, incarnato dalle calze coprenti delle gemelle Kessler, ogni tanto lasciava il posto a numeri e immagini molto lontani da quell’idea. Ci è capitato di rivedere lo spettacolo del ‘primo canale’ per il Capodanno del 1963: la tutina di paillettes super aderente sfoggiata dalla prima ballerina francese lasciava poco spazio all’immaginazione. Se balziamo poi alla Raffaella Carrà trionfante dei primi anni Settanta, i bigotti e benpensanti sembriamo noi. È chiaro che tanto della Rai con cui è cresciuta la nostra generazione – che ha fatto in tempo a vedere le trasmissioni in bianco e nero – oggi appaia museale ma stiamo parlando di un’impresa culturale nel senso più popolare del termine. Senza la quale ancora oggi faremmo fatica a riconoscerci. In “Studio Uno” il sabato sera la Rai schierava fra gli altri Mina, Totò, Walter Chiari, Paolo Panelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Raimondo Vianello, Rossano Brazzi, Rita Pavone, Gianni Morandi e decine di altri. Oggi porterebbero a scuola tutti. Al netto delle noiose e cicliche polemiche sui potenti di turno, il Tg1 resta la casa dell’informazione televisiva per eccellenza e la crescente concorrenza – come nel caso dell’intrattenimento – ha fatto solo del gran bene.
Alla Rai erigeremmo un monumento per quanto fatto in settant’anni (anche il cavallo di viale Mazzini va bene, potremmo riciclarlo) e il giorno dopo la privatizzeremmo. Nell’Italia del Terzo millennio qualsiasi altra soluzione appare improponibile: la lottizzazione continuerà finché la Rai resterà pubblica, in un ibrido di denari del contribuente e raccolta pubblicitaria. Mettiamola sul mercato, permettiamole di fare il suo lavoro, anche per conservare la memoria dei suoi meriti indiscutibili.
Di Fulvio Giuliani
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