Antonella Bertolotti, la guerra in un tè
Antonella Bertolotti è uno psichiatra che ti spiega la guerra come un dottore che sa di dover curare le ferite del corpo quanto quelle dell’anima. Si racconta per La Ragione con il suo immancabile sorriso determinato.
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Antonella Bertolotti, la guerra in un tè
Antonella Bertolotti è uno psichiatra che ti spiega la guerra come un dottore che sa di dover curare le ferite del corpo quanto quelle dell’anima. Si racconta per La Ragione con il suo immancabile sorriso determinato.
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Antonella Bertolotti è uno psichiatra che ti spiega la guerra come un dottore che sa di dover curare le ferite del corpo quanto quelle dell’anima. Si racconta per La Ragione con il suo immancabile sorriso determinato.
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Antonella Bertolotti è uno psichiatra che ti spiega la guerra come un dottore che sa di dover curare le ferite del corpo quanto quelle dell’anima. Si racconta per La Ragione con il suo immancabile sorriso determinato.
«Ho condiviso il tè con i soldati di mezzo mondo, con i guerriglieri talebani al confine tra Pakistan e Afghanistan o negli ospedali da campo profughi sul confine tra Turchia e Siria. A Kathmandu, dopo il terremoto, ho visto i nepalesi uscire dalle macerie, accendere un fornellino di fortuna e offrirmi il tè. E in Ucraina attorno a un tè siedi con i soldati perché, se la vodka serve a renderti sordo mentre passano i missili, è col tè che scopri che c’è poesia nella guerra. Nel tepore del tè svaniscono gli orpelli, il cameratismo militare che ti è servito per sopravvivere e – tornati a essere uomini e donne – gli ucraini credono in qualcosa che va oltre la guerra: al punto da essere dei visionari, al punto da farti chiedere dall’interprete chi sia Leopardi; è la grande bellezza della umanità».
Antonella Bertolotti da Brescia, psichiatra, la guerra te la spiega come un dottore che cura tanto le disperate ferite dell’anima quanto le granguignolesche ferite del corpo. «Sono cambiati i proiettili: non c’è più il foro di uscita, entrano e ti frantumano le ossa, le sovrainfezioni sono la regola». E così porta con sé le pomate e la macchina dell’ozono, medicamento semplice per situazioni precarie: «Lo uso per cicatrizzare le ferite di guerra, i traumi da compressione dei terremoti, le ulcere da decubito degli immigrati di Lampedusa causate dai giorni in mare sul fondo dei barconi, tra l’acqua salmastra e il gasolio del motore».
Antonella ti parla della morte senza parlarne, con pietas religiosa e determinazione scientifica, sorridendo a lei e alla speranza. «È bellissimo il mio mestiere, dimentico tutto e servo le persone; Paolo VI diceva che compito del medico era combattere il dolore e togliere la disperazione» ma anche ridare speranza. Stavolta serve far camminare chi è saltato su una mina e ha perso la gamba. «Una protesi costa dai 5mila ai 90mila euro: impensabile in Angola, in Siria e anche in Ucraina dove saltano e salteranno in aria per anni a venire, i ragazzini per primi. Ne abbiamo creata una da 500 euro con stampante 3d e intelligenti artifizi. E non è grigia o metallica ma colorata, magari anche tatuata, perché la guerra è polvere e grigio mentre il colore è bellezza, speranza, vita». Serve un laboratorio facile da installare e manutenere, replicabile a bassissimo investimento, un budget da 5mila euro perché le protesi devono essere prodotte da loro: non gli dai il pesce, gli dai la canna per pescare.
E poi torna a parlare dei terremoti: Nepal e Haiti ma anche Amatrice, dove passava tra le macerie, la Protezione civile si occupava del corpo e lei, con la sua Intermed Onlus, delle anime sotto shock stravolte dalla paura e bisognose di quell’assistenza psichiatrica che l’organizzazione dei soccorsi non poteva dare. L’ultima parola è sulla vita in Rwanda durante il genocidio, dove – come oggi in Ucraina – con la banalità di una tragedia si dava la vita per la vita degli altri, con così tanta paura e consapevoli che uccidere o essere uccisi fosse il modo per salvare i propri affetti: «La nostra lunga pace ci impedisce di comprendere quello stato dell’anima, teorizziamo sui social senza capire come ci si sentirebbe, non capiamo che per amore o per la libertà si è disposti con serenità a uccidere e morire. Ho visto pagare i propri assassini, non per vivere ma per avere una morte più dignitosa».
Di Antonella valgono gli occhi azzurri e il sorriso, la determinazione incosciente che terrorizza suo marito ogni volta che parte. Si dovrebbe parlare con lei anche delle donne in guerra – dai Balcani all’Ucraina e al Pakistan – e qualcosa ti dice, ma ha fretta: «Scusa, devo andare. Devo cercare di capire perché da Bergamo non mi è ancora arrivato il giubbotto antiproiettile, perché questa volta me lo devo mettere». E vola via, lasciandoti la penna in mano a tradire con le parole la potenza della sua generosità. Che cosa pazzesca.
di Flavio Pasotti
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