Con la pandemia abbiamo assistito a tutti i comportamenti che gli psicologi dell’emergenza inquadrano nelle diverse fasi di risposta al trauma in concomitanza con una catastrofe, caratterizzate da reazioni specifiche per ogni stadio.
La “fase pre-minaccia”, in cui allo stesso tempo si anticipa e si nega la possibilità di un disastro, è accompagnata da una sensazione di allerta e graffiante inquietudine. Ieri, gennaio 2020, arrivavano presagi nefasti dalla Cina: li accoglievamo con titubanza, cercavamo di esorcizzarli uscendo a cena in ristoranti ancora gremiti. Gli antesignani investivano in mascherine, mentre gli scaffali dei supermercati cominciavano a svuotarsi. Oggi siamo il pubblico che assiste con il fiato sospeso allo scontro impari fra Russia e Ucraina – uno Paese invasore, l’altro invaso – facendo pronostici sulle borse mondiali.
Esiste poi la “fase eroica”. Ieri in epoca Covid la solidarietà, l’energia e l’entusiasmo della comunità che si raccoglie attorno alle azioni necessarie per mantenere l’ordine e attivare le prime procedure di soccorso, con conseguente santificazione del personale sanitario (peraltro ripiombato in disgrazia subito dopo l’emergenza). Oggi, aprile 2022, Zelens’kyj è un nuovo simbolo di libertà e onore.
Quindi c’è la “fase ottimistica”, in un tempo e in uno spazio sospeso: abbiamo esposto cartelloni fuori dai balconi, cantato in coro e sperato nelle vacanze estive mentre la gente ancora moriva da sola, in ospedali lazzaretto. Oggi marciamo uniti contro la guerra, che accade qualche metro più in là.
Ma soltanto quest’anno, probabilmente, abbiamo cominciato a saggiare in maniera massiccia e reale la “fase della disillusione”: la consapevolezza della fatica necessaria per tornare alla tanto anelata normalità. Sono cominciati a emergere i disturbi post-traumatici, le difficoltà di adattamento. E per opporci alla mancanza di controllo, che ci vede stremati, ancora in balia di un nemico invisibile – il virus – ci siamo schierati in due fazioni opposte, tra chi osanna e chi demonizza vaccini e provvedimenti imposti. Queste convinzioni dal sentore quasi religioso hanno diviso colleghi, amici e famiglie e cementificato il legame tra perfetti sconosciuti, nella consueta tradizione manichea.
Come nel mito della caverna, ognuno di noi ritiene di essersi liberato dalle catene e di avere trovato una Verità, un Credo cui dedicarsi con fervore: pena il caos di riconoscersi totalmente impotenti, privi di riferimenti cui ancorarsi di fronte a forze invisibili. Schiviamo una riflessione antropologica sulla morte e sul conflitto, attribuendo alla guerra odierna motivazioni di natura unicamente economica, storica e politica. Perché se non riconoscessimo all’essere umano il bisogno profondo di trovare verità inossidabili e di distinguere con chiarezza i confini del bene e del male, rischieremmo di mettere in discussione la granitica e incolmabile divisione tra democrazia e nazional-socialismo. Oppure rischieremmo di riscoprirci fondamentalmente animali, che di fronte all’impotenza e alla mancanza di controllo reagiscono proprio mettendo in campo dimostrazioni di pura forza. Come uno schieramento bellico. Per paura, per rabbia.
Perché, forse, non siamo mai usciti dalla “fase eroica” della pandemia ma abbiamo bisogno di nemici visibili, di lotte tangibili, di un male con un volto. Di un dolore a cui poter ricondurre un significato deciso dall’uomo. E non dal caos.
di Nadia CattaneoLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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