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Taxi introvabili

Aspetta e spera

Taxi introvabili: oggi come allora lo scenario è esattamente lo stesso. Identico. Immobile ed eterno. In questo Paese “libero mercato” è sinonimo di male
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Taxi introvabili: oggi come allora lo scenario è esattamente lo stesso. Identico. Immobile ed eterno. In questo Paese “libero mercato” è sinonimo di male
Era l’estate 2004, lavoravo a “L’Indipendente”, faceva caldo (d’estate può succedere), la redazione era su corso Vittorio Emanuele, praticamente a Largo di Torre Argentina e ieri come oggi e molto ma molto probabilmente anche domani non c’era un taxi disponibile. I turisti, giapponesi o tedeschi o svedesi o di qualunque altra parte del mondo, vagavano per la città dei disservizi come anime in pena. Alla Stazione Termini vi erano code chilometriche di disgraziati viaggiatori che avevano preso il treno con l’idea stravagante di arrivare nientemeno che a Roma, capitale d’Italia, e prendere poi al volo un taxi e raggiungere la meta. La notte la città era più lenta che di giorno: le code a Termini non c’erano ma c’erano al telefono. Chiamavi per un taxi ma l’attesa era praticamente infinita, senza fine. Da qui deriva la definizione di Roma quale “città eterna”: perché l’attesa per avere un taxi era eterna. C’è gente che sta ancora aspettando dal 2004 il taxi che ha avuto l’assurda velleità di chiamare. Infatti, se cambiamo l’anno 2004 con l’attuale 2023 lo scenario è esattamente lo stesso. Identico. Immobile. Eterno. Giordano Bruno Guerri prese alla lettera la testata del quotidiano che dirigeva e disse: «L’Indipendente sono io». Benissimo. Facemmo una serie di articoli sul taxi introvabile: sulle code, sulle chiamate, sulle attese, sulle licenze, sulla domanda abbondante, sull’offerta insufficiente. Si giunse rapidamente alla scontata conclusione: via le licenze, si liberalizzi il servizio, si passi dalla corporazione al mercato. Ci fu una rivolta. I tassisti, che stanno a destra e vedevano nel nostro giornale un foglio di destra, vennero sotto la sede del giornale, giunsero in redazione e il vicedirettore Luciano Lanna passò un brutto quarto d’ora. Cosa volevano i tassisti? Che la si piantasse con l’inchiesta, che si riconoscesse il diritto dei tassisti a essere lasciati in pace con la loro licenza che avevano acquistato con sacrifici. Ci furono momenti di tensione, volarono parole grosse e finì come finiscono le cose in Italia: «Tengo famiglia». Oggi siamo esattamente nell’eternità di vent’anni fa: a Termini ci sono le code, i taxi vanno e vengono da Fiumicino perché la corsa è più ricca, in città ci sono poche auto bianche, la notte chiami ma chiami inutilmente, il pagamento avviene in contanti e devi stare attento al tassametro e al tragitto. Quel che accade a Roma accade, con dovute differenze e peculiarità locali e personali, anche nelle altre città di quest’Italia fatta a scatole in cui nessuno vuole che gli si rompano le scatole perché ogni scatola è una corporazione e ogni corporazione un monopolio. Così ora si sente dire che si aumenteranno le licenze. Come se aumentando le licenze si eliminasse la corporazione invece di incentivarla. Il governo vede nei tassisti, soprattutto romani, una corporazione amica e non vuole inimicarsela. Ma quel che accade a Roma fra governo e tassisti avviene in ogni città fra Comune e tassisti: ciò che non c’è è il libero mercato. Perché in questo Paese da strapaese l’espressione “libero mercato” è sinonimo di male, cattiveria, sopruso. E quel che vale per i tassisti e la mobilità urbana vale per gli ordini professionali, per la scuola, per la sanità e anche per la disoccupazione, che si concepisce come una nuova corporazione a cui assicurare il sussidio, la prebenda, il reddito. Innovare, cambiare, aprire in Italia è un’impresa nell’impresa perché in luogo del mercato c’è il privilegio. A destra come a sinistra. Ci vorrebbe un taxi per recarci nel futuro. Ma stiamo aspettando ancora quello chiamato nell’estate del 2004. Di Giancristiano Desiderio 

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