Ca(i)vano
Caivano è una ma di Caivano ne esistono tante. Non soltanto nell’hinterland di Napoli ma questi luoghi-non luoghi della cintura partenopea impressionano in modo particolare
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Caivano è una ma di Caivano ne esistono tante. Non soltanto nell’hinterland di Napoli ma questi luoghi-non luoghi della cintura partenopea impressionano in modo particolare
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Caivano è una ma di Caivano ne esistono tante. Non soltanto nell’hinterland di Napoli ma questi luoghi-non luoghi della cintura partenopea impressionano in modo particolare
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Caivano è una ma di Caivano ne esistono tante. Non soltanto nell’hinterland di Napoli ma questi luoghi-non luoghi della cintura partenopea impressionano in modo particolare
Caivano è una ma di Caivano ne esistono tante. Certo, non soltanto nell’hinterland di Napoli, ma indiscutibilmente questi luoghi-non luoghi della cintura partenopea impressionano in modo particolare. Quasi fossero dei buchi neri nel ‘corpo’ del Paese, ma anche nella testa di ciascuno di noi. Un buco nero attrae e terrorizza e così è stato da sempre, specialmente per tutte le ‘altre’ Napoli che vivono – o per meglio dire sopravvivono – a un soffio dalla città del mare, della bellezza, delle canzoni e della storia.
Non si possono comprendere Caivano e le tante altre Caivano senza concedersi un bagno di realtà: sono decenni che un pezzo di Napoli fa finta di non vedere l’altro. Che chi vive nei quartieri ‘bene’ (Chiaia, Vomero, Posillipo e così via, in fin dei conti non cambia nulla) cresce, pensa, lavora come se quell’altro mondo non soltanto non lo riguardasse, ma non esistesse. Chi scrive è cresciuto – per sua fortuna e senza alcun merito – in una di quelle cittadelle della normalità, in mezzo a compagni di classe allevati nell’idea di non doversi mescolare. Che l’altrove non dovesse essere neppure conosciuto, un terrore che fa apparire ridicola la paura di oggi dell’immigrato. Un altrove, si badi, distante un paio di chilometri in linea d’aria (a volte anche soltanto poche centinaia di metri) ma l’indifferenza, la presunzione e anche l’istinto di conservazione a volte possono erigere muri ideali insormontabili.
Abbiamo scritto “allevati” perché i primi a cullarsi nell’idea della distanza come protezione per sé e per i propri figli erano i genitori, rappresentanti di quella borghesia professionale così vasta a Napoli e storicamente disinteressata al bene e all’interesse comune. C’è chi fa risalire questa ignavia addirittura allo sterminio della migliore borghesia napoletana seguita all’effimera e sfortunata esperienza illuminista e democratica della Repubblica partenopea del 1799. 224 anni dopo non si sarebbe ancora riusciti a ricostruire un tessuto sociale capace di rifiutare l’assuefazione agli orrori.
Tutto questo potrebbe aiutare a capire perché il Parco verde di Caivano o le tante altre realtà simili non saranno salvate da una militarizzazione del territorio, che è soltanto la risposta più facile e di pancia all’inaccettabile. Serve il presidio, eccome se serve, ma senza la costruzione certosina di un’identità, di una coscienza e di una cultura poliziotti e soldati saranno visti sempre come gli “occupanti”. Presenze di uno Stato estraneo e non riconosciuto, lì dove i servizi sociali sono appaltati dichiaratamente alla criminalità organizzata. Servono immensamente di più scuole realmente meritocratiche capaci di far sognare la vita e la bellezza ai ragazzi, tribunali che funzionino e formazione al lavoro.
I simboli (a cominciare dai vigili urbani, non servono i carri armati) restano naturalmente importanti e per questo ha fatto bene la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ad andare a Caivano e a scegliere la formula della visita privata, per ridurre l’effetto passarella. Come ha fatto più che bene il coraggioso parroco del quartiere, l’ormai famoso Don Patriciello, a invitare il capo del governo. Il suo, però, non poteva che essere un grido di dolore amplificato dal vuoto in cui si è trovato per l’ennesima volta a urlare. Perché il tessuto sociale di quelle zone non esiste più, non reagisce, assuefatto alla diseducazione e l’ultima volta che ha sentito parlare dello Stato è quando ha ricevuto il reddito di cittadinanza con la promessa della cancellazione della povertà. Per risentirlo cinque anni dopo al ritiro del medesimo, mentre la povertà è ovviamente rimasta lì. Morale, prima ancora che materiale.
L’ultima mazzata, come tante volte sottolineato da chi non si capacitava della leggerezza con cui un simile provvedimento è stato ‘venduto’ nelle zone più socialmente depresse del Paese. Facendo finta di ignorare i pessimi semi che venivano piantati in un terreno inaridito da decenni di assenza e colpevole indifferenza.
di Fulvio Giuliani
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