| Società
Il riso fa buon sangue (e Dracula approva).
Il riso non è necessariamente espressione di allegria. Spesso si sorride per convenienza sociale (“Molto lieto…”) o ci si sente obbligati a ridere di una storiella poco spiritosa. Oltretutto la barzelletta è costruita, orecchiata: non ha la spontanea originalità della battuta improvvisata e quando si protrae troppo può creare uno stato d’imbarazzata sospensione. Un motto conciso e appropriato ha più probabilità di risultare efficace.
Chi è spiritoso, chi no? Raramente i politici lo sono. Churchill fu eccezione: «Se il mio avversario non smette di dire cose false su di me, comincerò a dire cose vere su di lui». Icastica. Occasionalmente ci ha provato Berlusconi, con esiti incerti. Quando ebbe a esclamare: «Sono solo un imprenditore che fa miracoli» probabilmente parlava sul serio. Incalza Totò: «A proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare?». I veri rivoluzionari, poi, tutti presi dal loro fanatismo, si direbbero noiosissimi e affatto privi di humour: qui la libido è orientata altrove.
Il riso è umano, umanissimo: perciò nemmeno i Testi Sacri sono tanto spiritosi. Più Spirito Santo che spirito brillante. L’Antico Testamento ci concede tutt’al più qualche sensualità nel Cantico dei Cantici e alcune scene di moderata lascivia attorno al vitello d’oro, quando Mosè scala il monte e non controlla il suo popolo. Poi scende desolato con le tavole: «Mi spiace» si giustifica. «Non sono riuscito a depenalizzare l’adulterio»: postilla apocrifa, che dobbiamo a Woody Allen. Nemmeno Gesù scherza, anzi manco ci prova. Insegna amore, non ironia. Come pretendere del resto battute dissacranti da Chi è sacro per definizione? Numerose, piuttosto, le facezie su di Lui: «Lo chiamano Maestro, ma non è nemmeno laureato» pare mormorassero scribi e farisei. Non male.
Impegnarsi seriamente sull’umorismo si direbbe un ossimoro. Ci riuscì lo spiritualista francese Henry Bergson, per il quale il riso è un’interruzione del libero fluire dello spirito, che lui chiamava élan vital: una gaffe, una papera, un distinto signore che inciampa. Allora lo slancio vitale si interrompe, bloccandosi in una macchina inceppata e ridicola. In Stallio e Ollio e in Chaplin la comicità è spesso ingegnosamente meccanica. “Il grande dittatore”, per esempio, è ricco di invenzioni e congegni esilaranti nel loro automatismo – tra riflessi condizionati, scontri e contraccolpi. Quando il capo tedesco e quello italiano goffamente incrociano il saluto romano, perdono entrambi ogni identità umana e si fanno marionette. Dissacrazione pura. Meno riuscito, forse, il serioso finale di buoni sentimenti, dove si auspica un mondo tutto fratellanza e niente armi. Anche perché senza armi nessuno avrebbe sconfitto il nazismo.
La comicità è grassa, di pancia. L’umorismo è raffinato, di testa. L’ironia può esser lieve e benevola (Manzoni), la beffa può farsi crudele (Dario Fo), il sarcasmo è comunque greve (Dante: «Godi, Fiorenza mia!»). Per Aristotele l’umorismo è «il senso compiaciuto della nostra superiorità». Secondo Freud nel comico affiora l’inconscio represso. Certo, scherzando si possono dire le cose più terribili. Ci sarebbe infine da chiedersi, dopotutto, se la risata sia compatibile con un corretto esercizio della Ragione: ma forse è meglio non compromettersi proprio su queste pagine, semmai chiediamo lumi al direttore.
di Gian Luca Caffarena
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Tag: società
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