Un fremito, fra gli altri, ha percorso i club per scambisti: «Hai sentito? I peccati della carne non sono gravi, lo ha detto Bergoglio» si dicevano. Mi spiacerebbe smorzare gli entusiasmi fra sì generosa umanità, ma si riferiva all’arcivescovo di Parigi. «Cosa ha fatto di così grave?» s’interrogava il capo della cattolicità. «È stato condannato? (…) Le piccole carezze, i massaggi che faceva alla segretaria … E questo è un peccato, ma non è dei peccati più gravi».
Non ho competenza in quel di cui egli è maestro, ma ove la signora non fosse stata consenziente sarebbe un reato. Ove lo sia stata no e, per quel che ci riguarda, sono affari loro. Se proprio vogliamo approfondire non c’è alcun dubbio che “Uccelli di rovo” è assai preferibile alla pedofilia, ma rimane diverso da quel che la dottrina prevede. Il problema, però, riguarda i credenti.
Che i peccati della carne non siano poi così decisivi lo si sa da tempo, in teoria come in pratica. Ben lo spiegò un prete per finta, nel film “La messa è finita”: «Vengono a raccontarmi un sacco di queste cose perché sanno che non sono gravi».
Appunto. Però, sarebbe complicato sostenere che le tre fedi monoteiste – nate da un ceppo comune, quello ebraico dei «fratelli maggiori» (Karol Wojtyla) – non abbiano un comun denominatore misogino e sessuofobico. Che sia un peccato di minor caratura risente dei tempi, in questa parte del mondo, perché in altri, tempi e luoghi, può portare fino alla pena di morte. Merito dell’arcivescovo che si sia puntualizzato.
di Gaia Cenol
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