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Cortesia e ironia salvifiche

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Dire «Grazie» sembra essere diventata una dura prova. E guai a lamentarsi dei maleducati! Le buone maniere ormai sono intese come ipocrisia o subordinazione

Educazione

Cortesia e ironia salvifiche

Dire «Grazie» sembra essere diventata una dura prova. E guai a lamentarsi dei maleducati! Le buone maniere ormai sono intese come ipocrisia o subordinazione

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Cortesia e ironia salvifiche

Dire «Grazie» sembra essere diventata una dura prova. E guai a lamentarsi dei maleducati! Le buone maniere ormai sono intese come ipocrisia o subordinazione

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Può essere una porta sbattuta in faccia, uno sguardo di disprezzo lanciato all’ingresso di un negozio o un semplice silenzio per una stretta di mano. Ogni giorno la buona pratica si trova a confrontarsi con la misericordia di persone spietate. I termini di deferenza vengono presi come vecchie servitù linguistiche o, peggio, come parole volgari di subordinazione. Abbastanza per trovare a volte scuse per gli insulti. O almeno per gli errori. È il caso della frase «Mi scuso», talvolta intesa come scortese. Ma è davvero sbagliato? Per scortese si intende il non ringraziare più nessuno. In nessun caso. Nozioni di base della cortesia insegnate fin dall’infanzia, ma dire «Grazie» sembra essere diventata una dura prova. Peggio ancora, qualcosa che farebbe saltare i denti, strapperebbe la lingua e farebbe cadere dal proprio piccolo piedistallo di presunzione. E guai a lamentarsi dei maleducati! Anche per le altre barriere sociali che sono state infrante da tempo, l’esito è quello di essere visti come dei grandi cretini. Chi interagisce con i tedeschi, ad esempio, ha perfettamente capito che non bisogna mai chiedere scusa quando si spinge qualcuno sulla strasse o quando lo si calpesta sulla fusse. Ringraziare quindi è un grande segnale di debolezza. Chi va spesso a Milano avrà capito che non si chiede un caffè al cameriere dietro al bancone pur essendo educati. Si prende un caffè e basta, come se si stesse dando ordine da eseguire.

Osare formule come «Per favore» o «Per cortesia» – a parte il fatto che tradirà il provinciale o lo straniero – avrà l’effetto di disorientare il barista avvezzo alla folla dei questuanti della tazzina. Dire «Grazie» fa sussultare, sentirselo dire porta con sé una sorta di imbarazzo, un disagio. Un peccato da tacere. Un arrossire improvviso. Come un complimento. Forse dovremmo attribuire questa inversione di tensione ai maleducati? Oggi la cortesia appare un comportamento stupido e borghese. Ringraziare è prostrarsi ai potenti e ai ricchi e sembra invece un miraggio qualsiasi forma di cortesia che sarebbe una squisita urbanità. In un passato molto lontano (quello dei Romani) la formula di cortesia, coronata dal concetto di morale gentile o urbanitas, era parte di un ordine filosofico globale, razionale, etico ed estetico allo stesso tempo.

Lo racconta Bertrand Buffon nel suo micro-manuale “Il piacere della gentilezza. Piccolo trattato sulla buona educazione nell’era globale”, un breviario da leggere di questi tempi. L’autore insegna che secondo Jean-Jacques Rousseau la cortesia era «un velo uniforme e perfido» che incoraggiava l’ipocrisia. Grazie con la mano sinistra e pugnalata con la mano destra. Rousseau, per il quale «la cortesia esige costantemente, il decoro ordina», considerava il formalismo della cortesia e l’ossessione per la correttezza come degli ostacoli a ogni vera espressione. Di conseguenza, piuttosto patinati, non saremmo più stati noi stessi. È un punto di vista evidentemente tornato in uso. Saper usare espressioni educate appropriate è una vera e propria abilità linguistica e sociale. Ma in certe situazioni l’esigenza del rituale si basa su codici così arbitrari e complessi che è quasi impossibile padroneggiarli, se non sono stati oggetto di un lungo apprendistato fin dalla tenera età. Diventa allora un’etichetta: non serve più a rendere i rapporti più fluidi, ma a renderli più complessi, ai fini dello smistamento e delle distinzioni sociali. «L’umorismo è la gentilezza della disperazione»: insegniamo almeno quello ai bambini.

Di Francesca Bocchi

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