Fair, progressisti anti woke
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Fair: The Foundation Against Intolerance & Racism. In America è ancora troppo presto per essere sia progressisti sia anti-woke

Fair, progressisti anti woke
Fair: The Foundation Against Intolerance & Racism. In America è ancora troppo presto per essere sia progressisti sia anti-woke
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Fair, progressisti anti woke
Fair: The Foundation Against Intolerance & Racism. In America è ancora troppo presto per essere sia progressisti sia anti-woke
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AUTORE: Francesco Gottardi
Scriveva Philippe Muray nel 1991, con grande lungimiranza: «Mai come oggi il bene è stato sinonimo di una condivisione così assoluta». E infatti oggi negli Stati Uniti d’America non resta che l’aut aut: da una parte il dogma della pseudo inclusività, che narcotizza la società civile a suon di cancellazioni culturali e paranoia da politicamente corretto; dall’altra la voragine trumpista, xenofoba, sovversiva – dunque il male, per definizione in negativo – che risucchia tutto ciò che viene frettolosamente respinto o bollato come nemico dal polo opposto. Nella terra della Third way ogni terza via s’è smarrita. È per questo che l’imprenditore Bion Bartning decise due anni fa di colmare il vuoto e istituire un ente che tutelasse le varie sfaccettature del pensiero moderato, ma senza vincoli di buonismo. Una creatura fino ad allora mitologica: sia progressista sia anti-woke.
Si chiama Fair e sin dal nome – The Foundation Against Intolerance & Racism – scimmiotta i sostenitori della “teoria critica della razza” che a furia di ortodossia hanno contribuito a ghettizzare il Paese. In soldoni: più s’ingrossano certi canali di wokeness (nella fattispecie, ritenere che l’intero sistema, dall’amministrazione alla giustizia, sia strutturato per danneggiare gli afroamericani), più i repubblicani alla Ron DeSantis gridano al pericolo dell’indottrinamento di massa. Fair vuole emanciparsi dai primi per togliere pretesti ai secondi. Dichiarandosi nonpartisan e pro-human, cioè a sostegno «delle singole individualità interconnesse nel vivere comune». È qualcosa di cui l’America sente il bisogno. E infatti l’iniziativa, sotto forma di organizzazione non profit, fa il botto: vi aderiscono intellettuali, attivisti, giornalisti, personalità del mondo accademico. In pochi mesi piovono donazioni per diversi milioni di dollari, vengono aperte 80 sezioni nazionali e Fair arriva a contare circa 35mila iscritti. Poi però si arena.
Professarsi anti-woke è un conto. Ma come esserlo? Dal 2021 a oggi la Fondazione non ha trovato il necessario consenso interno. Dividendosi in correnti e perdendo smalto in ogni sfera del dibattito, dalle discriminazioni sociali alle questioni sull’identità di genere – sembra quasi la storia del Pd. E alla fine è arrivato pure il ribaltone ai vertici, con Bartning messo ai margini di Fair. «Ci siamo politicizzati anche noi» ha ammesso il fondatore, intervistato a giugno dal settimanale “New Yorker” nel corso di un lungo reportage sulla vicenda. «I nostri donatori più facoltosi ci finanziano per ottenere un certo tipo di agenda: spesso estremizzandola a sinistra, facendo dimenticare le origini del progetto Fair». Che per ora resta un rebus, se non un’occasione persa. Per la gioia degli sceriffi della morale: Muray l’aveva chiamato “Impero del bene” anche perché è difficile da scalfire.
di Francesco Gottardi
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