Felicità e la strategia del bradipo
Felicità e la strategia del bradipo
Felicità e la strategia del bradipo
La felicità intesa come vocabolo la troviamo un po’ ovunque. In particolare nelle canzoni e nella pubblicità. Ma anche nella filosofia classica (Epicuro), come in certi marziali proclami ispirati all’Illuminismo dove la felicità è rivendicata, al pari della vita e della libertà, quale inalienabile diritto umano. Da Al Bano allo stoicismo, dal Mulino Bianco all’edonismo reaganiano, è tutto un inneggiare a quella che generalmente è ritenuta la condizione più sublime dello spirito. Eppure nulla è più effimero, labile e soggettivo della felicità. Che non è né mai potrebbe essere un dato costante: piuttosto evoca una breve e fresca ventata primaverile. Leggera come una carezza, volatile come un profumo. Per Leopardi è un momento illusorio, rubato alla natura matrigna. Forse soltanto la bellezza è altrettanto fugace, latitante e poco definibile. Del resto, plaisir d’amour ne dure qu’un moment...
L’uomo moderno, in preda a un’euforia obbligata e falsa, ha un crescente bisogno di simulare felicità e ostentare successo. Non manca la pretesa di misurare la felicità individuale e collettiva con parametri positivisti, con cui si vorrebbe quantificare la qualità. Ed ecco il “World Happiness Report” dell’Onu che, immaginando un’inedita unità di misura come il Fil (Felicità Interna Lorda), vorrebbe rappresentare l’indice di letizia di 158 Paesi. Strano “edonimetro”.
C’è una bella parola latina – felix – che vuol dire fecondo, fertile. E ce n’è una greca che esprime il senso vero di una serena soddisfazione: è l’aristotelica eudaimonia, che consiste nel conoscersi a fondo per individuare e liberare il proprio migliore estro (demone, genio, talento). Meglio di un’insulsa ebbrezza o di ogni utopia gaudente, una quieta stabilità emotiva, una sobria serenità capace di ampliare gli spazi della vita interiore, senza escludere momenti di riflessiva melanconia da cui possano emergere contenuti preziosi per ogni personalità matura. La tristezza va interpretata: negarla o reprimerla equivale a mettersi contro sé stessi, in pericolosa dissociazione. Mentre è possibile mitigare i ritmi convulsi di questo nostro tempo con la saggia lentezza del bradipo, creatura ammirevole in quanto non deve dimostrare proprio niente. Otium cum dignitate. Perchè no? Jung diceva che la depressione è una signora in nero, che si siede alla nostra tavola e va ascoltata. Se questo è vero, l’allegria è una ragazzina spensierata e spesso bizzarra, opportunamente moderata da quella zia attenta e un po’ severa che è la responsabilità. Fine dell’allegoria.
di Gianluca Caffarena
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