Fine di un’epoca già finita
Addio alle cabine telefoniche, la prima fu installata nel ’52 a Milano. Furono molto di più di un semplice luogo di pubblica utilità
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Addio alle cabine telefoniche, la prima fu installata nel ’52 a Milano. Furono molto di più di un semplice luogo di pubblica utilità
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Fine di un’epoca già finita
Addio alle cabine telefoniche, la prima fu installata nel ’52 a Milano. Furono molto di più di un semplice luogo di pubblica utilità
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Addio alle cabine telefoniche, la prima fu installata nel ’52 a Milano. Furono molto di più di un semplice luogo di pubblica utilità
Si chiude un’epoca. O meglio, si chiude ufficialmente un’epoca dato che, in pratica, questa storia era finita da un pezzo. Lo scorso 25 maggio l’Agcom ha stabilito che Tim non è più obbligata a garantire il servizio pubblico e può iniziare a smantellarlo. Ovvero, può dare il via alla rimozione delle poche cabine telefoniche rimaste in servizio sul territorio. Si farà eccezione per quelle ubicate in ospedali, caserme e in tutte quelle aree ancora non coperte dalla rete mobile. Già da anni erano in disuso, ridotte a elemento di arredo urbano o poco più. Dalla prima, installata il 10 febbraio 1952 in piazza San Babila, sino alle ultime, quelle con l’accesso a Internet impiantate nel 2012, le cabine hanno cambiato forma e aspetto, ma soprattutto hanno fatto da complemento ai tempi che cambiavano.
Come lo spieghi a un millennial che una volta, per telefonare, dovevi girare con le tasche piene di gettoni o con la scheda telefonica nel portafoglio? Che non era così scontato parlare con qualcuno e che in quei parallelepipedi di metallo e vetro andava in scena la commedia dell’esistenza umana, fra dichiarazioni d’amore, liti, scherzi, fugaci gioie e piccoli dolori? Non è semplice. Eppure c’è stato un tempo nel quale la cabina telefonica era non soltanto un luogo di pubblica utilità, ma una metafora della vita. In essa erano racchiusi il senso e il valore dell’attesa, rappresentati dal momento nel quale sarebbe arrivato il nostro turno, con quelle conversazioni scandite dal rumore del gettone che cadeva, nelle quali sembrava che il tempo non bastasse mai e quindi non potevi sprecarlo.
Certo, l’immaginario collettivo si nutriva dell’aspetto elegante e scarlatto delle cabine inglesi, molto più caratteristiche delle nostre e con la speciale funzionalità di essere dotate di un numero al quale potevi richiamare (in Italia arrivò soltanto nel 2006, ormai fuori tempo massimo). O di quelle statunitensi, divenute addirittura l’elemento principale di un film – “In linea con l’assassino” – nel quale il killer tiene in scacco la vittima contattandolo a un telefono in strada. Da noi, però, sono state realmente protagoniste nelle vicende del Paese. Solo per citarne un paio, da una cabina della Stazione Termini partì la telefonata che il 9 maggio 1978 scrisse una delle pagine più tristi della nostra storia e sempre da un telefono pubblico era arrivata, pochi mesi prima, la chiamata con la quale si rivelava l’indirizzo dove Moro era tenuto prigioniero e che avrebbe potuto cambiare il corso della vicenda.
In ogni caso – oggi che le cabine vanno verso la pensione, con il gettone che non esiste più e con le schede telefoniche oggetto di un collezionismo vintage – torna in mente una celebre battuta di un film con Carlo Verdone il quale, all’attrice che si lamentava perché non riusciva a trovare una cabina dalla quale chiamare, così rispondeva: «Ringrazia Dio che ne hai trovata una, di solito le portano a casa e ci fanno le docce». Ecco, speriamo che non finisca esattamente così.
Di Stefano Faina e Silvio Napolitano
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