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Futuro neroficato

Sbaglia chi pensa che la nostalgia sia questione di poco conto: è un freno a mano tirato che rallenta anche chi ha fiducia nel futuro

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Sbaglia chi pensa che la nostalgia sia questione di poco conto: è un freno a mano tirato che rallenta anche chi ha fiducia nel futuro

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Sbaglia chi pensa che la nostalgia sia questione di poco conto: è un freno a mano tirato che rallenta anche chi ha fiducia nel futuro

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Sbaglia chi pensa che la nostalgia sia questione di poco conto: è un freno a mano tirato che rallenta anche chi ha fiducia nel futuro

Una nota rivista di costume pubblica una nuova (l’ennesima) intervista al personaggio di turno perché racconti (ancora una volta) la sua storia. L’intervistato è così gentile da prendersi la briga di spiegare ai lettori, lui che ben lo sa, come il mondo sia cambiato negli ultimi cinquant’anni. Cambiato in peggio, neanche a dirlo. Da qualche tempo il «Prima si stava meglio» è diventato «La mia generazione era diversa», a voler intendere che quelle nuove sono in qualche modo rammollite o comunque di minor valore rispetto alle precedenti. Archiviata (si spera) la prima massima, concentriamoci sulla seconda: ma va? Che mondo e che Paese folli sarebbero i nostri se nulla fosse cambiato in mezzo secolo! Ma torniamo all’intervista.

Racconta il personaggio: «Sono cresciuto in strada» (non avevamo dubbi). «Rispetto alla mia, le generazioni di oggi sono molto più isolate e fanno molta più fatica a stringere amicizie». Premesso che abbiamo colto la metafora, qualcuno si sarà chiesto come mai non riusciamo a liberarci ancora dell’immagine della strada e del cortile come l’unico vero modo di crescere dei bambini che non siano dei rincitrulliti? Sarà colpa soltanto della pigrizia di chi vive di luoghi comuni o sarà forse per questa continua e velenosa nostalgia del passato, tipica di chi ha vissuto il proprio tempo e non tollera che sia arrivato il turno di qualcun altro? Il tutto alimentato poi da quello che è diventato uno sport nazionale: pensare che la propria esperienza sia quella del mondo intero, tanto da far sentire ciascuno saccente abbastanza da pensare di sapere come questo funzioni. A dirla tutta, parte della responsabilità è di chi quelle interviste le realizza e poi le pubblica, sforzandosi di riempire pagine altrimenti povere di qualsiasi contenuto e che legge sempre meno gente. E sbaglia chi pensa che quella nostalgia sia questione di poco conto: è un freno a mano tirato che rallenta anche chi la fiducia nel futuro non l’ha ancora persa. Fiducia che diventa iniziativa. Iniziativa che diventa sviluppo. Sviluppo che diventa profitto.

Ecco allora la chiave per uscirne: pensare che ognuna di quelle interviste alla «Si stava meglio quando si stava peggio» ci faccia perdere soldi e mica pochi. La brutta notizia è che la mancata fiducia nel futuro e nelle prossime generazioni non è niente di nuovo, l’ennesima sciocca lotta fra fazioni: noi contro loro, loro contro di noi. I giovani mal sopportano i vecchi, che ancor peggio sopportano i giovani. Stesso film già visto, senza che mai nessuna generazione abbia saputo non ripetere gli errori dei propri genitori. Risultato: un Paese che cresce quei pochi figli che gli sono rimasti ricordando loro di continuo che il tempo migliore è quello passato. E a forza di sentirselo dire, quei figli diventati grandi si chiederanno quindi che senso abbia sbattersi per un futuro che di certo non sarà migliore del loro presente. Anzi, peggio: se quelli di prima hanno vissuto bene, pretenderanno che qualcuno li aiuti a fare altrettanto, ma senza fare sforzi. Che qualcuno mi mantenga, che da solo non ce la faccio.

Il sospetto a questo punto è che ci sia anche questo dietro alle classifiche che vedono l’Italia sempre indietro per produttività, per numero di laureati, per competitività. E le prospettive per il futuro non sembrano essere migliori. Anzi, magari potessimo tornare ai fasti del passato! Cacchio, ora ci sono caduto anch’io.

Di Luigi Santarelli

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