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Se telefonando io… non ti rispondo

I giovani dai 18 ai 34 anni rispondono poco o malvolentieri alle telefonate, provando addirittura ansia e fastidio: si ribalta l’epoca delle chiamate attese e bramate

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Se telefonando io… non ti rispondo

I giovani dai 18 ai 34 anni rispondono poco o malvolentieri alle telefonate, provando addirittura ansia e fastidio: si ribalta l’epoca delle chiamate attese e bramate

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Se telefonando io… non ti rispondo

I giovani dai 18 ai 34 anni rispondono poco o malvolentieri alle telefonate, provando addirittura ansia e fastidio: si ribalta l’epoca delle chiamate attese e bramate

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I giovani dai 18 ai 34 anni rispondono poco o malvolentieri alle telefonate, provando addirittura ansia e fastidio: si ribalta l’epoca delle chiamate attese e bramate

Il telefono squilla: è un numero non presente in rubrica. Tentenno, temo di perdere un’occasione importante o una notizia urgente ma prende il sopravvento una strana forma di agitazione, come quando ci si trova in ascensore con uno sconosciuto e il tempo si congela nell’imbarazzo di convenevoli che vorremmo evitare.

Infine, la strategia: copio il numero e lo cerco su Google. Entro ufficialmente nel vortice di una ricerca affannosa e spesso improduttiva che sarebbe facilmente aggirabile cliccando su quel tasto verde e rispondendo un semplice: “Pronto, chi è?”.

Stessa situazione, fine anni Novanta. L’iconico telefono bianco della SIP strombazza alle ore 16:00 in punto. È un rito ed è la solita amica che ti travolge di domande e aneddoti succulenti sulla giornata scolastica, magari parlando sottovoce per non farsi sentire dal genitore timoroso. La risposta a quella telefonata è immediata: il mio collegamento con il mondo esterno è tutto in quella cornetta e quando la telefonata non è per me, un velo di dispiacere mi oscura il viso.

Due epoche diverse e la stessa persona: io, noi, tutti. Si, perché secondo una ricerca pubblicata dal Times un giovane su 4 tra i 18 e i 34 anni risponde poco o malvolentieri alle telefonate preferendo scambi più agevoli come i messaggi su whatsapp o note vocali (il 37%). Circa il 70% degli intervistati ha spiegato di provare addirittura ansia e fastidio nel dover portare avanti una conversazione a voce, soprattutto quando non si conosce l’interlocutore e che questo genere di contatto sia collegato a notizie spiacevoli o tendenzialmente negative. Altrimenti, perché non mandare un semplice whatsappino?

Il problema è quello del contatto, anche se soltanto telefonico, perché devono adeguarsi all’altro e saper usare le regole del dialogo” ha spiegato in un’intervista Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo presso la facoltà di Medicina e Psicologia della Sapienza, a Roma.

L’idea di forme mediate di comunicazione in cui il tempo e il modo di rispondere è deciso in autonomia e a debita distanza farebbe sentire meglio i giovani d’oggi. Tutto questo, favorito dal Covid (già, ancora lui) ma anche da una graduale disimpegno dei genitori nell’abituare sin dalla tenera età i propri figli a sapere dialogare con gli altri, tenendosi stretta questa peculiarità miracolosa che ci rende diversi dal mondo animale.

Se lo schermo può aiutare i più timidi non può e non deve diventare l’escamotage all’evoluzione della Gen Z da giovani a adulti. Lo stesso dott. Ammaniti ha dichiarato: “L’adolescenza non è altro che una ‘malattia normale’. Un periodo della vita che deve essere vissuto con i suoi alti e bassi”. Il rischio è l’involuzione: da adulti pensanti al ritorno dell’homo erectus. In piedi quasi per caso ma sempre in religioso silenzio.

di Raffaela Mercurio

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