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I pedoni più veloci di sempre

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Un recente studio interdisciplinare pubblicato dal National Bureau of Economic Research americano ha confrontato il comportamento dei pedoni – nel 1980 e nel 2010 – in alcune delle principali metropoli degli Stati Uniti. Non siamo mai andati così di corsa

I pedoni

I pedoni più veloci di sempre

Un recente studio interdisciplinare pubblicato dal National Bureau of Economic Research americano ha confrontato il comportamento dei pedoni – nel 1980 e nel 2010 – in alcune delle principali metropoli degli Stati Uniti. Non siamo mai andati così di corsa

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I pedoni più veloci di sempre

Un recente studio interdisciplinare pubblicato dal National Bureau of Economic Research americano ha confrontato il comportamento dei pedoni – nel 1980 e nel 2010 – in alcune delle principali metropoli degli Stati Uniti. Non siamo mai andati così di corsa

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Non siamo mai andati così di corsa. E non è un modo di dire. Un recente studio interdisciplinare pubblicato dal National Bureau of Economic Research americano ha confrontato il comportamento dei pedoni – nel 1980 e nel 2010 – in alcune delle principali metropoli degli Stati Uniti. L’analisi è stata possibile grazie all’applicazione delle più moderne tecniche di intelligenza artificiale su una serie di vecchi filmati relativi agli stessi punti nevralgici delle città, come la Chestnut Street di Philadelphia, il Downtown Crossing di Boston, il Metropolitan Museum of Art e Bryant Park di New York. Il risultato? Nel 2010 i pedoni camminavano in media il 15% più velocemente rispetto a 30 anni prima. Ma non finisce qui. Il tempo trascorso negli spazi pubblici si è complessivamente dimezzato, così come è diminuita l’abitudine a riunirsi in piccoli gruppi.

Arianna Salazar-Miranda, autrice dello studio e professoressa della Yale School of the Environment, ha provato a formulare alcune ipotesi sulle motivazioni che stanno dietro a questo cambiamento. Una prima spiegazione potrebbe riguardare l’importante aumento dei redditi fra coloro che vivono e lavorano nelle località analizzate. Il maggior valore assegnato al loro tempo, spiega Salazar-Miranda, potrebbe dissuadere gli abitanti dall’impegnarsi in attività di svago come conversazioni casuali o passeggiate che ora hanno un costo-opportunità più elevato.

Si stava meglio quando si stava peggio, dunque? Forse, perché anche la solitudine si sta confermando una problematica sempre più sentita nelle metropoli americane. È proprio questa la seconda ipotesi formulata nello studio: stando a un sondaggio del 2023 dell’Università del Michigan, il sentirsi o ritrovarsi soli riguarderebbe il 79% dei giovani fra i 18 e 24 anni e un terzo di coloro che hanno fra i 50 e gli 80 anni. Dati allarmanti, che potrebbero spiegare la minore tendenza a formare gruppi e socializzare nei luoghi pubblici rispetto a trent’anni fa. È pur vero che nel 2010 l’80% degli adulti americani possedeva già un telefono e (anche nei filmati utilizzati per la ricerca) avrebbe potuto socializzare tramite sms, chat o chiamate: proprio come facciamo oggi. Ciò nonostante, come scriveva Jane Jacobs in “Morte e vita delle grandi città americane”, «le strade e i loro marciapiedi, i principali luoghi pubblici di una città, sono i suoi organi più vitali». Quando ciò non avviene, c’è il rischio che il polso delle nostre metropoli sia sempre più debole. «Quando le persone interagiscono in spazi privati – come quando vanno in un caffè, in un ristorante o in un bar – tendono a incontrare persone molto vicine a loro, con un background economico simile» ha confermato Salazar-Miranda. In luoghi del genere faticherebbero quindi a imbattersi in prospettive nuove e stimolanti.

Sessant’anni fa Jacobs scrisse che le città «differiscono dai sobborghi per alcuni aspetti fondamentali e uno di questi è che sono, per definizione, piene di estranei». Il risultato, sosteneva, è quel melting pot che ha reso ricche e vivaci le metropoli Usa. Per sfruttarle, però, i cittadini devono trovare il modo di fermarsi e incontrarsi. Altrimenti la città diventa solo una somma di quelli che l’antropologo Marc Augé definiva «nonluoghi», privi di identità e scopi relazionali.

di Alessandro Salgarelli

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