Il ritardo dei giovani nelle scelte riguardanti lo studio e il lavoro
L’incertezza, tra i giovani, non è affatto minoritaria. Lo dimostrano i dati, come ad esempio l’ultimo rapporto Inapp riguardante l’orientamento professionale
Il ritardo dei giovani nelle scelte riguardanti lo studio e il lavoro
L’incertezza, tra i giovani, non è affatto minoritaria. Lo dimostrano i dati, come ad esempio l’ultimo rapporto Inapp riguardante l’orientamento professionale
Il ritardo dei giovani nelle scelte riguardanti lo studio e il lavoro
L’incertezza, tra i giovani, non è affatto minoritaria. Lo dimostrano i dati, come ad esempio l’ultimo rapporto Inapp riguardante l’orientamento professionale
A finire al centro di una controversia sono le dichiarazioni fatte da una professoressa. Il contesto: una delle lezioni del semestre-filtro della Facoltà di Medicina, che con la nuova riforma ha preso il posto del tradizionale test di ingresso temuto da generazioni di medici e odontoiatri. La polemica parte da Bari, ma diventa un caso nazionale. Dice l’insegnante: «Dovrebbe studiare Medicina soltanto chi proviene dal liceo classico o scientifico». Luogo comune: non rende geni una laurea, figuriamoci la scuola superiore che hai frequentato. Poi prosegue: «Se avessi avuto un figlio di 25 anni lo avrei mandato a consegnare le pizze, piuttosto che fargli seguire il semestre filtro». Altro concetto che parte male, anche se le polemiche – come spesso accade – si concentrano sul nulla.
Non è chiaro a cosa alludesse la professoressa con quella frase
Non è chiaro a cosa alludesse la professoressa con quella frase: se al fatto che a 25 anni sia tardi per intraprendere un percorso che nella migliore delle ipotesi ti terrà impegnato fino alla soglia dei 40 anni (fra laurea, abilitazione professionale e specializzazione) o se fra quelle righe vi sia da leggere piuttosto una critica alla riforma del Ministero.
Fatto sta che quelle parole, senza entrare nel merito delle ragioni e dei torti (non abbiamo abbastanza elementi per farlo), almeno uno spunto lo danno.
È ammissibile oggi arrivare a 25 anni senza sapere cosa si vuole fare da grandi? Pensiamo di no. E non, come ha sottolineato il dibattito di questi giorni, perché il sistema scolastico dovrebbe farsi carico anche di indicarti la via da seguire a livello lavorativo. Ci accontenteremmo che la scuola formasse dei cittadini dotati di competenze di base (anche se i dati Invalsi puntualmente deludono queste aspettative).
È anomalo arrivare a 25 anni senza un’idea sul proprio futuro e senza aver fatto i conti con il dopo: a quell’età si è adulti a tutti gli effetti. E insomma, dopo due o tre cicli scolastici non può non essersi accesa una lampadina che spinga a intraprendere un percorso invece di un altro, che faccia sognare di uscire di casa sperimentando l’indipendenza, che porti a desiderare di guadagnare uno stipendio magari frutto di un lavoro che piace. Salvo, è scontato dirlo, che il proprio cognome sia Rothschild e si arrivi alla conclusione che lavorare per vivere sia superfluo. Non a caso, a potersi permettere quel ‘limbo’ di uno o più anni sabbatici sono coloro che possono, nell’indecisione, campare sostenuti dalla famiglia di origine (alla faccia del “siamo tutti più poveri”…).
L’incertezza, tra i giovani, non è affatto minoritaria. Lo dimostrano i dati
Eppure a indicare che l’incertezza, tra i giovani, non è affatto minoritaria, sono i dati. L’ultimo rapporto Inapp (l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) sull’orientamento professionale dice che il 57,3% di coloro che hanno tra i 15 e i 28 anni non ha la minima idea del lavoro che vorrà fare da grande. Percentuale che resta sopra il 50% nella fascia 18-24 e si abbassa leggermente in quella 25-28, collocandosi comunque al 41,2%. Passi l’indecisione a 15 anni e l’anno sabbatico a 18 per ‘scoprirsi’, ma superati i 20 anni quell’indecisione rischia di diventare cronica.
E no, non significa che non esistano difficoltà, che i percorsi non ammettano retromarce. Anzi. Solo che tra il partire e il restare immobili una differenza c’è. Le opportunità esistono, addirittura in molti settori si sono moltiplicate (diffidare degli inguaribili pessimisti), fra lavori tradizionali, creativi, digitali, ibridi. Ma sperare che siano quelle stesse opportunità a raggiungerci, indicandoci la via, è materia che appartiene a un altro mondo.
di Enrico Galletti
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