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Il “transfemminismo intersezionale” non ha nulla del femminismo

Come non provare sconcerto davanti a questo strano femminismo che identifica in ogni maschio un predatore

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Il “transfemminismo intersezionale” non ha nulla del femminismo

Come non provare sconcerto davanti a questo strano femminismo che identifica in ogni maschio un predatore

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Il “transfemminismo intersezionale” non ha nulla del femminismo

Come non provare sconcerto davanti a questo strano femminismo che identifica in ogni maschio un predatore

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Come non provare sconcerto davanti a questo strano femminismo che identifica in ogni maschio un predatore

Come non provare sconcerto davanti a questo strano femminismo che identifica in ogni maschio un predatore, coordina la Santa Inquisizione dei pronomi e dei sostantivi e scaglia anatemi (“fascista”, “razzista”, “sessista”) contro chiunque disapprovi? In realtà questo strano intruglio che prende il nome di “Transfemminismo intersezionale” non ha nulla del femminismo. È un’altra cosa. Infatti ha a cuore un po’ tutto: dagli Lgbt+ al riscaldamento globale, fino alla pace nel mondo. Se proprio parla di donne, lo fa per difendere il loro ‘diritto’ al burka. Esiste già da un po’, anche se lo abbiamo notato solo dopo il 7 ottobre, quando le seguaci sono scese in strada contro il patriarcato bianco capitalista sventolando bandiere della Palestina.

A idearlo nel 1989 fu Kimberlé Crenshaw, una docente di diritto che lo intese come un prisma che riflette le intersezioni di razza e classe sociale come forme di disuguaglianza. Un approccio che avanzò parallelamente al concetto di inclusione, equità e diversificazione (Dei) – che mirava a creare diversità nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni – e al woke, originariamente teso a compensare squilibri sistemici dovuti alla razza. Quest’ultimo però, nella sua rapida evoluzione, finì presto per sostenere un razzismo rovesciato: i bianchi non devono soltanto prendere consapevolezza del loro privilegio, ma anche fare ammenda per le colpe dei loro predecessori. Si tratta insomma di un’ideologia che ha finito per colpevolizzare i bianchi semplicemente perché esistono e che nelle università americane è arrivato addirittura alle ‘sedute rieducative’. Una cosa degna della Cina di Mao.

Il woke aveva cominciato a dilagare durante l’amministrazione Obama. Trump colse lo scontento della fetta di America che tremava davanti a un fenomeno che pareva avere a cuore tutti tranne che la classe operaia bianca. Un Paese che, come contrappeso al wokesi rifugiava nel suprematismo bianco e nel rigore cristiano-evangelico. In pochi anni la politica americana finì così per polarizzarsi.

Il femminismo intersezionale prese il sopravvento in quel contesto – nel giorno successivo all’insediamento di Trump alla Casa Bianca – con la Marcia delle Donne del 21 gennaio 2017, in opposizione al trumpismo. Originariamente proposta dall’avvocato in pensione Theresa Shook, avrebbe dovuto essere una marcia a sostegno di Hillary Clinton ma assunse una direzione diversa quando Mary Lynn Foulger – nota come Bob Bland – scalzò Shook affermando che le donne bianche avrebbero dovuto lasciare spazio alle minoranze. E invitò poi alla direzione Linda Sarsour, una palestinese promotrice della sharia che aveva alle spalle il Council on American-Islamic Relations (Cair), un’organizzazione sospettata di essere affiliata ai Fratelli Musulmani. Abile nel tessere le fila tra la sinistra progressista, l’estrema sinistra e i movimenti pro-islamici, Sarsour fece della marcia la rampa di lancio del femminismo intersezionale, anti-occidentalista e anti-sionista.

Il nuovo femminismo sfondò in Italia qualche mese dopo, quando venne promosso dalla neonata associazione Non Una di Meno alla manifestazione per la Giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne.

di Alessandra Libutti

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