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Gli italiani al palo come crescite salariali

I sindacati invocano aumenti contrattuali vicini a quelli tedeschi o danesi, rispettosi di dinamiche inflattive importanti. Noi italiani ci chiediamo nei salotti televisivi perché non possiamo farlo.
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Gli italiani al palo come crescite salariali

I sindacati invocano aumenti contrattuali vicini a quelli tedeschi o danesi, rispettosi di dinamiche inflattive importanti. Noi italiani ci chiediamo nei salotti televisivi perché non possiamo farlo.
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Gli italiani al palo come crescite salariali

I sindacati invocano aumenti contrattuali vicini a quelli tedeschi o danesi, rispettosi di dinamiche inflattive importanti. Noi italiani ci chiediamo nei salotti televisivi perché non possiamo farlo.
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I sindacati invocano aumenti contrattuali vicini a quelli tedeschi o danesi, rispettosi di dinamiche inflattive importanti. Noi italiani ci chiediamo nei salotti televisivi perché non possiamo farlo.
Non è uno tsunami perfetto, forse più un tuffo a bomba. Ma quando per anni si è scelto di giocare al ribasso o fingere di saper nuotare anche il rinculo di un innocente tuffo può mandarti sott’acqua. In pochi giorni, tra una statistica Covid e una sul numero di bombe, sono passati inosservati ai più i tanti numeri e le tante percentuali sullo stato di salute del mondo del lavoro in Italia. Partiamo dalla fine: i sindacati invocano aumenti contrattuali vicini a quelli tedeschi o danesi, rispettosi di dinamiche inflattive importanti. IG Metall, il più importante sindacato tedesco tratta aumenti intorno all’8% e impone una tantum vicine a una mensilità nel settore farmaceutico ricco; non da meno la Danimarca, che sta per sugellare un aumento del salario minimo del 40% (da 10 a 14 euro l’ora). La Francia pre-elettorale e quindi più generosa in diversi round negli ultimi 12 mesi ha incrementato il salario minimo di circa il 6%. Tanti Paesi hanno agganciato direttamente le retribuzioni all’inflazione e la media europea si attesta intorno ad aumenti del 3%. E noi, ci chiediamo nei salotti televisivi, perché non possiamo farlo? Prima di rispondere, un altro paio di statistiche recenti: a marzo abbiamo oltre 800mila occupati in più dell’anno prima, siamo quasi al 60% del tasso di occupazione (mai nella storia dell’Istat c’era stato un aumento del quasi 3% sull’anno precedente, merito certo del brutto 2021 timbrato Covid ma forse anche dei due differenti presidenti del Consiglio in essere). I sindacati ancora storcono il naso: la gran parte degli occupati sono a tempo determinato. Peccato che fingano di ignorare l’uscita massiva dal circuito degli autonomi in direzione di quello dei dipendenti – visto come più tutelante – così come non capiscano che creare competenze è più faticoso che comprarne già fatte e quindi che se i datori di lavoro avessero qualche certezza in più sulle scelte di lungo periodo sarebbero i primi a volere assumere a tempo indeterminato. Ma ecco un ulteriore elemento destabilizzante: i dati della manifattura sono in grande calo per i mesi a venire, mentre i costi delle materie prime e dei trasporti sono alle stelle. Tanto che l’economia di guerra è già reale e i dati di cassa integrazione ordinaria (da fermo di produzione per calo della domanda o crescita dei costi) sono di nuovo ai massimi storici dai tempi della pandemia acuta e superiori del ben 20% rispetto a due mesi fa. E peggiorerà nei prossimi mesi: un’azienda su due avrà impatti diretti sulla produzione dovuti direttamente alla guerra. Un ultimo dato: le imprese italiane – guerra o non guerra, Covid o non Covid – necessiteranno di circa un milione e mezzo di lavoratori con competenze nuove nei prossimi 5 anni. Nei soli primi 4 mesi di quest’anno mancano ben 2 lavoratori su 5 per competenze richieste dal mercato. Solo tre anni fa le cosiddette “assunzioni difficili” per mancanza di competenze erano 2 su 7. E dunque nell’economia di guerra, che crea incertezza e abuso di cassa integrazione, in realtà il nostro Paese ad alcune commesse rinuncia – o viene estromesso – per mancanza di competenze. Non così il nostro maggiore rivale in Europa per l’industria, la Germania, che con il suo sistema di formazione duale – tradotto: l’alternanza scuola-lavoro che il governo Conte ci raccontava orgoglioso di aver smantellato – continua a cavalcare le competenze del futuro. E così facendo lascia a casa 1 giovane su 20 (mentre noi 1 su 4!). Ora forse siamo pronti a rispondere: siamo al palo come crescite salariali perché il sistema non può permettersele. E non perché c’è lo tsunami perfetto nel mondo del lavoro o per la guerra o per il Covid o per le varie transizioni in atto. Non possiamo permettercele perché il sistema scolastico ha fallito non investendo sulle competenze tecniche e quello sindacale è stato troppo ideologico nel demonizzare alcune assunzioni verso altre; infine quello politico ha creato dipendenza dalle materie prime altrui e puntato ai voti dei Neet, i nostri ragazzi che non lavorano né studiano. Ecco le basi per una non cultura del lavoro. Non serviva uno tsunami per affondare, bastava un qualsiasi tuffo a bomba.   Di Peter Durante

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