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La donna e la violenza economica

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Una donna può avere un lavoro, uno stipendio, un conto in banca e una routine professionale. E tuttavia non disporre davvero del proprio denaro

La donna e la violenza economica

Una donna può avere un lavoro, uno stipendio, un conto in banca e una routine professionale. E tuttavia non disporre davvero del proprio denaro

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La donna e la violenza economica

Una donna può avere un lavoro, uno stipendio, un conto in banca e una routine professionale. E tuttavia non disporre davvero del proprio denaro

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Una donna può avere un lavoro, uno stipendio, un conto in banca e una routine professionale. E tuttavia non disporre davvero del proprio denaro. Può essere il partner a trattenere la busta paga, a decidere le spese, a gestire le password dell’home banking o il bancomat. Può dover chiedere per ogni acquisto o firmare deleghe e contratti che non controlla. Non è mancanza di diritti formali: è impossibilità concreta di esercitarli. Ed è in questa distanza che nasce quella forma di abuso che oggi chiamiamo violenza economica.

Secondo i dati Istat aggiornati a quest’anno, il 31,9% delle donne tra i 16 e i 75 anni ha subìto almeno una violenza fisica o sessuale. Ma la spirale spesso parte prima: dalla limitazione delle risorse, dalla sottrazione dello stipendio, dalla gestione esclusiva del conto. È una dinamica che può durare anni, rendendo più difficile lasciare un partner violento, trovare un alloggio, mantenere un lavoro.

Il nodo centrale riguarda l’accesso al denaro. Le elaborazioni dell’Abi e della Banca d’Italia mostrano che soltanto il 30% delle donne è intestatario di un conto personale. Non significa che le altre non possano aprirlo: significa che non lo fanno perché non hanno la disponibilità delle risorse. La stessa cointestazione può diventare uno strumento di controllo quando soltanto uno dei due gestisce password e movimenti. E senza un conto proprio, accedere a un mutuo o a una carta prepagata può diventare difficile.

Il costo macro lo misura lo European Institute for Gender Equality (Eige): 366 miliardi di euro l’anno nella Ue tra spese sanitarie, giudiziarie, assistenziali e produttività persa. Applicando la quota italiana, il danno oscilla tra 25 e 30 miliardi di euro: quanto una manovra economica. Non è soltanto sofferenza delle vittime: è valore che evapora, ore di lavoro perse, competenze che s’interrompono. L’impatto sulle aziende non è marginale. L’Organizzazione internazionale del lavoro delle Nazioni Unite e l’Ocse documentano gli effetti della violenza domestica su assenze, burn-out e prestazioni ridotte. Una lavoratrice in questa condizione può avere cali di concentrazione, limitazioni orarie, difficoltà a gestire imprevisti. Eppure pochissime imprese dispongono di policy interne, nonostante i criteri Esg spingano verso modelli più attenti alle fragilità.

Anche la lentezza della giustizia ha un costo. Una donna che denuncia può trovarsi per mesi senza reddito stabile, senza supporto abitativo, senza strumenti per ricostruire autonomia. Ogni mese lontano dal lavoro è capitale umano che si svaluta. L’Italia, già penultima in Europa per occupazione femminile, paga così un doppio prezzo: sociale e produttivo. La violenza economica non riguarda soltanto le vittime: riguarda l’intero sistema Paese. Ridurla significa aumentare l’occupazione femminile, rafforzare la produttività, rendere l’Italia più competitiva.

Come garantire davvero il diritto pieno e concreto al proprio denaro, che la legge già riconosce? La politica, più che inventare soluzioni miracolose “in costanza di convivenza”, può lavorare su alcuni snodi delicati: rendere più rapide ed effettive le tutele patrimoniali quando una donna chiede la separazione o avvia un procedimento, evitare che i tempi della giustizia la lascino senza mezzi, coinvolgere il sistema bancario e le autorità di vigilanza nella definizione di procedure che aiutino a riconoscere i casi di abuso senza bloccare in modo indiscriminato i conti di famiglia. Non si tratta di creare un nuovo diritto né di immaginare un controllo impossibile sulle scelte individuali: si tratta di rendere meno fragile e un po’ più esigibile quello che la legge già prevede.

di Ilaria Donatio

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