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La sanità oltre la pandemia

Una delle dimensioni oscure della tragedia collettiva della pandemia fu leggere – nei bollettini quotidiani dei morti – i nomi dei propri cari

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La sanità oltre la pandemia

Una delle dimensioni oscure della tragedia collettiva della pandemia fu leggere – nei bollettini quotidiani dei morti – i nomi dei propri cari

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Una delle dimensioni oscure della tragedia collettiva della pandemia fu leggere – nei bollettini quotidiani dei morti – i nomi dei propri cari

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Una delle dimensioni oscure della tragedia collettiva della pandemia fu leggere – nei bollettini quotidiani dei morti – i nomi dei propri cari

Una delle dimensioni oscure della tragedia collettiva della pandemia fu leggere – nei bollettini quotidiani dei morti – i nomi dei propri cari, senza poter essere al loro fianco nemmeno per l’ultimo saluto. Amplificando l’isolamento con il sentimento di abbandono. Una realtà che non mette in discussione neppure per un istante le misure dell’emergenza (adottate in una situazione del tutto inedita) e ancor meno gli eccellenti risultati della campagna vaccinale che l’Italia ha condotto con assoluta maestria. Eppure quelle ultime ore di totale solitudine di quei troppi che ci hanno lasciato meritano di essere ricordate con una riflessione.

In un periodo in cui la solidarietà veniva messa in primo piano in tutti i comunicati pubblici, c’è chi non ne ha sperimentata nemmeno un po’, prima di essere velocemente elevato al rango di eroe (giusto il tempo della pandemia, beninteso): gli operatori sanitari che si trovarono di fronte a una malattia imprevedibile, senza i mezzi adeguati per poterla gestire. Sono stati isolati dalle proprie famiglie, incolpati talvolta della carenza di posti letto e additati come cause di contagio da parenti esasperati, senza essere a loro volta protetti adeguatamente ed esponendosi al pericolo in continuazione. L’esito dei tamponi inizialmente richiedeva anche diversi giorni, ma questo li costringeva nel frattempo a rimanere isolati (in quanto troppo pochi per potersi assentare), aumentando il rischio di diventare loro stessi ‘untori’.

In questo contesto era necessario essere tempestivi e pronti a tutto, senza però dimenticare di agire con una spiccata sensibilità, come racconta uno dei cardiologi dell’ospedale San Giovanni Paolo II di Olbia ricordando uno dei suoi interminabili turni di notte: «Mi chiamavano in Pronto soccorso per le consulenze che riguardavano i sospetti casi di Covid. Durante una di quelle visite mi trovai davanti un bambino con un’infezione al cuore provocata dal virus: la comunicazione verbale, così come quella visiva per via delle varie precauzioni che avevo indosso, erano quasi assenti. Piangeva ininterrottamente e non riuscivo a visitarlo. Era spaventato perché i suoi genitori non erano potuti entrare con lui, così pensai di chiamarli per fargli sentire la loro voce. Ma nemmeno questo servì a calmarlo. Venni a sapere poi che aveva una cagnolina a cui era molto affezionato, così chiesi ai genitori di inviarmi un suo video e glielo mostrai. Piano piano riuscii a visitarlo, accettò le cure soltanto dietro la mia promessa che presto avrebbe rivisto la sua amata cagnolina. In quella situazione così critica ero titubante io stesso nel dargli certezze sulla guarigione, ma poi per fortuna andò tutto per il meglio. A dimostrazione del fatto che nella nostra professione è fondamentale saper creare empatia con il paziente anche nei momenti più drammatici».

In un’Italia ferma, i medici erano gli unici che non si fermavano mai sotto il peso di mascherine e visiere strette fino a lasciare i solchi in viso, provati dalla stanchezza e dal senso di responsabilità di avere in carico un numero sempre più alto di pazienti, con il costante dubbio di aver potuto fare di più. Dalle testimonianze sui fatti di allora traspare ben poca speranza e forse ancor meno fiducia: non era raro che, in attesa degli esiti dei tamponi, i pazienti venissero lasciati in container isolati prima di poter essere visitati, portando così ad aggravare la loro situazione, con conseguenze talvolta fatali.

La pandemia non è più cronaca, ma non è ancora Storia. Talvolta sembriamo semplicemente non volerci pensare più, quando invece riflettere è necessario.

di Silvia Orecchioni

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