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La “sindrome di Grinch” esiste davvero

La sindrome di Grinch, un concentrato d’ansia e di affaticamento che si manifesta quando lo stress prende il sopravvento sulle emozioni positive

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La sindrome di Grinch, un concentrato d’ansia e di affaticamento che si manifesta quando lo stress prende il sopravvento sulle emozioni positive

Le luci, lo scintillio degli ori e il tradizionale rosso natalizio sono un invito al buonumore, alla speranza, alla bontà e alla grazia. Un invito a rinnovare l’amore verso i propri simili e quello condiviso con le persone care. La tempesta di messaggi augurali (per lo più dai contenuti standard) che in tempo reale parte dalla rubrica di posta elettronica, un tempo erano cartoline decorate scelte e personalizzate, spedite nei tempi utili alla ricezione. Sempre e soltanto a Natale ricorrono cene, balli e giochi di beneficenza in circoli esclusivi e negli spazi saturi di devozione parrocchiale.

L’atterraggio di Babbo Natale è atteso dall’innocenza dei bambini. Mentre Grinch perseguita la maturità (per lui quasi marcia) degli adulti felici e risparmia i disagiati del Natale. Babbo Natale non ha bisogno di presentazioni, famoso com’è in tutto il mondo sulla slitta o sulla tavola da surf. Invece Grinch – da noi conosciuto anche come Sgruntolo – è una creatura umanoide di colore verde marziano, con le pupille rosse, la pancia prominente e gli arti lunghi, nata dall’immaginazione del fumettista e scrittore statunitense Theodor Seuss Geisel. La sua personalità è di tipo misantropico: irritabile e solitaria, tutto sommato cinica. Grinch detesta le feste e in particolare odia il Natale. Travestito da Babbo Natale s’intrufola nelle case. Ruba i regali e distrugge lo scintillio simbolico di addobbi e decorazioni, mastica e sputa via il vischio.

La disconnessione del personaggio con gli stereotipi comandati ha dato il nome a un malessere periodico più diffuso di quanto si pensi: la sindrome di Grinch. Cosa sottende? Un concentrato d’ansia e di affaticamento da stress che si manifesta qualora le prestazioni straordinarie prendano il sopravvento sulle emozioni positive. Così come accade nel tourbillon dei preparativi, dello shopping e degli obblighi sociali: uno per tutti, la cena aziendale. In altri soggetti fa capolino quella malinconia stratificata denominata dagli anglosassoni “Christmas Blues”. Molto evidente in coloro che hanno subìto separazioni o periodi di particolare insoddisfazione. “Quelli che” (parafrasando Enzo Jannacci), avvolti nei propri ricordi, sono o si sentono soli in compagnia di tensioni e rapporti familiari conflittuali.

Pur essendo non codificata nei manuali di salute mentale, la sindrome di Natale esiste. È un disturbo dell’umore con sintomi simili – sia nella sfera emotiva sia in quella cognitiva (scarsa concentrazione, pensieri negativi intrusivi) – al disturbo cronico affettivo stagionale (Sad), caratterizzato da episodi depressivi riacutizzati in maniera ciclica nei mesi freddi.

A proposito di ciclicità, al Natale segue il Capodanno. La fine di ogni anno – nonostante i sorrisi tra i brindisi – segna un periodo di bilanci esistenziali, economici e progettuali. E quando le frecce non colgono il centro delle aspettative e degli obiettivi raggiunti, ecco piombare addosso le frustrazioni. Con una sensazione di gelo interiore che blocca ogni slancio propositivo. In tal caso la vera terapia – vecchia di 80 anni – fiorisce sui resti polverosi della guerra di secessione americana descritta nel romanzo di Margaret Mitchell, attraverso la frase pronunciata da Rossella O’ Hara: «Dopotutto, domani è un altro giorno».

Di Elvira Morena

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