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Le mie manette hanno reso mio figlio muto

Mio figlio non mi parla dalla notte in cui mi hanno arrestato. Io, investigatore privato certificato, arrestato perché un mio ex dipendente aveva raccontato che fossi io il mandante dell’omicidio per cui lui era stato arrestato.
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Le mie manette hanno reso mio figlio muto

Mio figlio non mi parla dalla notte in cui mi hanno arrestato. Io, investigatore privato certificato, arrestato perché un mio ex dipendente aveva raccontato che fossi io il mandante dell’omicidio per cui lui era stato arrestato.
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Le mie manette hanno reso mio figlio muto

Mio figlio non mi parla dalla notte in cui mi hanno arrestato. Io, investigatore privato certificato, arrestato perché un mio ex dipendente aveva raccontato che fossi io il mandante dell’omicidio per cui lui era stato arrestato.
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Mio figlio non mi parla dalla notte in cui mi hanno arrestato. Io, investigatore privato certificato, arrestato perché un mio ex dipendente aveva raccontato che fossi io il mandante dell’omicidio per cui lui era stato arrestato.
Quando indossa il kimono e sale sul tatami è un bambino come tutti gli altri. Anzi, è più forte di tutti i suoi coetanei che praticano judo. Ha una tale abilità nel compiere le proiezioni che sembra essere nato per questa arte marziale. Lo Tsurikomi Goshi – il colpo d’anca tirando, sollevando e bloccando a terra l’avversario – gli riesce con estrema naturalezza. Poi, quando si riveste con pantaloni e maglietta, torna nel suo silenzio. Totale. Assordante. Sì, perché mio figlio è affetto da disprassia verbale evolutiva: un disturbo del linguaggio che si è manifestato il giorno del mio arresto, avvenuto davanti ai suoi occhi. Quella notte stava male, aveva la febbre e io gli sono stato accanto tutto il tempo cercando di rassicurarlo, di farlo addormentare, fino a quando, verso le 5 del mattino, hanno suonato alla porta di casa. Ho aperto e mi sono trovato davanti cinque carabinieri armati. «Dobbiamo fare una perquisizione». Poi, senza tanti giri di parole, mi hanno arrestato con l’accusa di essere il mandante di un omicidio. Io, incensurato, investigatore privato certificato, con una società specializzata in gestione della sicurezza, un buon giro di clienti, mi sono ritrovato in una cella di Regina Coeli: eravamo cinque in tre metri per quattro. In carcere ho passato 132 giorni. In primo grado mi hanno condannato all’ergastolo, verdetto che è stato ribaltato dalla Corte d’Assise d’Appello di Roma che mi ha assolto «per non aver commesso il fatto». La sentenza è stata poi confermata anche dalla Cassazione a tre anni dal mio arresto. Un mio ex dipendente, che avevo licenziato perché inaffidabile sul lavoro, aveva raccontato in Procura che ero io il mandante di un omicidio per il quale era stato arrestato lui. Prima di lasciare la mia azienda, mi aveva sibilato: «Te la farò pagare».   (Massimiliano Prosperi, 53 anni. Ha ottenuto un indennizzo di 40mila euro ma è in attesa dell’assegno da oltre 11 mesi. «Il risarcimento più grande? Far tornare la parola a mio figlio»)   di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone

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