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La Grande Dimissione

L’effetto farfalla della “Grande Dimissione” americana è già qui

L’ondata di dimissioni USA è giunta in Europa. Il Portogallo corre ai ripari con più tutele per i lavoratori. In Italia, a contrastare il fenomeno, c’è il South Working ma servirebbe una regolamentazione chiara.

L’effetto farfalla della “Grande Dimissione” americana è già qui

L’ondata di dimissioni USA è giunta in Europa. Il Portogallo corre ai ripari con più tutele per i lavoratori. In Italia, a contrastare il fenomeno, c’è il South Working ma servirebbe una regolamentazione chiara.

L’effetto farfalla della “Grande Dimissione” americana è già qui

L’ondata di dimissioni USA è giunta in Europa. Il Portogallo corre ai ripari con più tutele per i lavoratori. In Italia, a contrastare il fenomeno, c’è il South Working ma servirebbe una regolamentazione chiara.

L’ondata di dimissioni USA è giunta in Europa. Il Portogallo corre ai ripari con più tutele per i lavoratori. In Italia, a contrastare il fenomeno, c’è il South Working ma servirebbe una regolamentazione chiara.

Negli Usa è ormai un fenomeno dilagante che tocca il piano lavorativo ed economico quanto quello sociale: Great Resignation” o “Big Quit”, il trend di dimissioni di massa causato da una nuova e più profonda consapevolezza del valore del proprio tempo che spinge le persone a licenziarsi da qualsiasi posizione e a qualsiasi età. Un effetto farfalla probabilmente scaturito, in prima istanza, da quello che la nuova generazione chiama burnout, letteralmente “bruciarsi”, “esaurirsi”, il punto di non ritorno in cui il lavoro diventa debilitante e causa principale di un crollo psicofisico.

Il fenomeno oltre Oceano

Per la U.S. Bureau of Labour Statistics, soltanto nel luglio del 2021, ben 4 milioni di cittadini statunitensi hanno lasciato il proprio lavoro. Un’altra ricerca condotta da Microsoft su 30mila lavoratori ha rivelato che il 41% di questi sta considerando di dimettersi, soprattutto nella fascia d’età 18-25. Nulla a che vedere con un semplice trend passeggero ma un convincimento profondo, figlio delle riflessioni pandemiche, che il tempo del Dio lavoro sia giunto al termine nelle sue peculiarità sino ad ora perseguite: workism lo definiscono alcuni, una idealizzazione estrema del proprio impiego come mezzo e come fine, unica ed indiscutibile realizzazione personale oltre misura. Non è un caso che il fenomeno si sia diffuso proprio negli States, terra promessa ed ora teatro di scontri ideologici 

La Grande Dimissione in Europa

L’Europa e l’Italia non sono indifferenti a questi nuovi meccanismi. È notizia recente che in Portogallo lo Stato si sia fatto carico personalmente di bilanciare in modo più salutare gli equilibri tra vita e lavoro promuovendo una serie di leggi fra cui spiccano il divieto di contattare i propri dipendenti fuori dall’orario di lavoro (pena multe salatissime) e il rimborso delle spese extra sostenute dal lavoratore in smart (utenze domestiche in primis). Certo, il Governo portoghese ha a cuore la salute dei suoi cittadini ma anche quella delle finanze del Paese visto e considerato che risulta essere una delle mete più ambite da chi ha la possibilità di lavoro da remoto, attratto dal clima mite ed ospitale ed un costo della vita modesto. Ridurre la questione lavorativa post pandemica ad una mera discussione su Smart Working sì o Smart Working no è quanto mai errato. Non si tratta solo di lavoro fuori dall’ufficio ma di riconsiderare i valori essenziali del singolo individuo e, di conseguenza, dell’intera collettività. Altro fenomeno collegato è la discussione ancora aperta sulla possibilità di riduzione della settimana lavorativa da 5 a 4 giorni lavorativi. L’Islanda l’ha sperimentata per 4 anni, dal 2015 al 2019, con risultati sorprendenti: a parità di salario la produttività dei dipendenti è raddoppiata. Sulla stessa lunghezza d’onda anche l’azienda spagnola Desigual, le sedi Renault in Francia e il progetto pilota non dissimile da quello islandese promosso di recente dalla Scozia. Non si risolve tutto con uno Smart Working scellerato e questo appare chiaro a tutti; l’obiettivo, anzi, è proprio evitare che i meccanismi tossici del lavoro moderno varchino la soglia delle nostre case, rivelando con tutta la loro prepotenza l’inefficacia di un sistema che non funziona più.

E in Italia?

Il Paese della “Repubblica democratica fondata sul lavoro” appare più restio al cambiamento. Un gran numero di aziende continuano a barcamenarsi tra diverse opzioni ibride. Si procede a tentoni per un’atavica incapacità di plasmarsi al cambiamento. Si assiste inermi (e il social del lavoro LinkedIn ne è testimonianza) ad un numero sempre più crescente di dimissioni anche in Italia o di annunci di lavoro carenti di candidature, come riferiscono molti responsabili delle risorse umane.  Una piccola fetta di giovani dipendenti o imprenditori sta promuovendo in Italia l’idea di South Working: uno spostamento volontario e costruttivo di competenze anche nel Sud del nostro Paese ora che la pandemia ha portato a galla la consapevolezza che presenza non significa necessariamente efficienza. Ma non è tutto oro quel che luccica ed è proprio per questo che, come Scozia o Portogallo, una regolamentazione ce la si aspetta dall’alto, da quella politica esitante e immobile che risponda una volta e per tutte alla fuga dei giovani italiani verso mete più rispettose del tempo e del lavoro. Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento” diceva Charles Darwin. A noi scegliere se sopravvivere o  morire.     

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