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Lo psicologo che parla alle vittime di Cosa nostra

Toni Giorgi, psicologo del Centro di Vittimologia Clinica denuncia la situazione ancora difficile oggi in Italia per le vittime di mafia.

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Lo psicologo che parla alle vittime di Cosa nostra

Toni Giorgi, psicologo del Centro di Vittimologia Clinica denuncia la situazione ancora difficile oggi in Italia per le vittime di mafia.

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Toni Giorgi, psicologo del Centro di Vittimologia Clinica denuncia la situazione ancora difficile oggi in Italia per le vittime di mafia.

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Toni Giorgi, psicologo del Centro di Vittimologia Clinica denuncia la situazione ancora difficile oggi in Italia per le vittime di mafia.

Intervista a Toni Giorgi, psicologo, presidente del Centro di Vittimologia Clinica, docente di Psicologia all’Università Cattolica di Brescia, da più di vent’anni si occupa di psicologia dei fenomeni mafiosi ed è socio della Società italiana di criminologia.   A trent’anni dalla strage di Capaci, possiamo dire che è stata fatta giustizia?  Per analizzare la questione e in particolare la strage di Capaci bisogna tenere conto di diversi fattori: del piano giuridico, di quello sociale ed infine politico. Sicuramente se si guarda alla vicenda da un punto di vista criminologico e vittimologico non mi pare sia stata fatta giustizia. Né per i familiari coinvolti e sopravvissuti né tanto meno per le vittime indirette dell’oppressione mafiosa.   Quali problemi continuano a persistere? Questo è un Paese che ha sempre risposto sul piano giuridico al fenomeno mafioso sui temi dell’emergenza ma non c’è mai stata una dimensione strutturale per contrastare efficacemente le mafie. Oggi è più difficile intercettare una persona che vuole denunciare il pizzo perché non c’è la tutela dello Stato e non c’è la dimensione della protezione. Non si capisce la dimensione della delinquenza efferata che la mafia può scatenare e che oggi si presenta in giacca e cravatta.  In Italia non esiste (ancora) uno strumento o una struttura in grado di prendersi cura a 360 gradi dell’accoglienza delle vittime che si ribellano e che denunciano la mafia per vivere una realtà più serena. Si riferisce a qualcuno in particolare? Nel nostro Paese abbiamo esempi di grandi personalità come Tiberio Bentivoglio che pur avendo denunciato da trent’anni chiede giustizia, ma gli apparati statali ancora non hanno risposto al suo appello. Commemorare le stragi rimane un momento importante, ma non può essere solo mero ricordo. Bisogna rendersi conto che non siamo ancora in grado di aiutare le persone che cercano di uscire dal circolo della violenza mafiosa.    Quali strumenti ci sono nel nostro Paese per contrastare la mafia?  Attualmente ci sono pochi strumenti giuridici a disposizione e chi denuncia si trova da solo a vivere cinque vittimizzazioni. La prima è quella provocata dall’associazione mafiosa, la seconda quando la vittima non viene accolta adeguatamente, la terza riguarda i processi, durante i quali la persona si trova a dover affrontare situazioni veramente difficili per una durata incredibile di anni. La quarta è la paura della propria incolumità a seguito della denuncia ed infine la quinta: la società che si allontana, considerando un errore la denuncia.   Ci sono condizioni ancora difficili in Italia per denunciare il fenomeno mafioso? Per fortuna molte associazioni supportano le vittime,  come “Libera” e “Addiopizzo”, ma una situazione così delicata da un punto di vista sociale, economico e giuridico non può essere affidata solo al volontariato. La psicologia di cui mi occupo cerca di aiutare le persone in questi momenti difficili. Ho ascoltato situazioni familiari incredibili, e sono rimasto soprattutto sorpreso del loro sentimento di solitudine e di abbandono da parte dello Stato.  Che cosa si intende con il modello di Brescia? È una metodologia di presa in carico delle vittime di mafia. Attualmente il comune di Brescia in collaborazione con la cooperativa “Il mosaico”  gestisce questo fenomeno (tutti i contatti sono reperibili sulle pagine facebook). Si tratta di un servizio che aiuta le vittime di mafia e che coinvolge non solo gli enti locali come il comune, la prefettura e tutte le forze di polizia ma anche le associazioni sindacali come la CGIL e Confindustria. Queste realtà condividono insieme, come in una rete, un obiettivo comune tramite metodi di lavoro professionali e che seguono una precisa procedura per l’intercettazione e la liberazione delle vittime. Un modello già attivo, un’innovazione che potrebbe essere replicata su tutto il territorio nazionale.  di Claudia Burgio 

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