L’ultimo della prima, sardo muto e picconatore
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Francesco Cossiga: per la prima volta dall’emanazione della Costituzione fu il primo presidente eletto al primo scrutinio e l’ultimo della prima Repubblica.
L’ultimo della prima, sardo muto e picconatore
Francesco Cossiga: per la prima volta dall’emanazione della Costituzione fu il primo presidente eletto al primo scrutinio e l’ultimo della prima Repubblica.
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L’ultimo della prima, sardo muto e picconatore
Francesco Cossiga: per la prima volta dall’emanazione della Costituzione fu il primo presidente eletto al primo scrutinio e l’ultimo della prima Repubblica.
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AUTORE: Gaia Cenol
La novità fu quella iniziale: per la prima volta dall’emanazione della Costituzione il presidente fu eletto al primo scrutinio, da una maggioranza ampia comprendente i comunisti. Era il 24 giugno del 1985. L’uscente Pertini aveva voluto tenersi il patrocinio, invitandolo pubblicamente a cena prima dell’inizio delle votazioni. Era stato scelto per riportare il Quirinale alla sua funzione silenziosa. Su questo non ci fu la novità e, ancora una volta, quel che si voleva votandolo non fu ciò che accadde durante il settennato. Tanto era stato acclamato, quanto Francesco Cossiga se ne andò detestato.
Il più giovane presidente, eletto trionfalmente a 57 anni, era un precoce anche nell’attività professorale e politica. Era stato ministro degli Interni democristiano durante i giorni del rapimento e poi dell’uccisione di Moro, il che aveva consolidato il suo rapporto con i comunisti, ma sembrava anche averne troncato la carriera, avendo dato le dimissioni e affrontato la depressione. Fu precoce anche nel capire che la prima Repubblica era in agonia, cosa che lo spinse a passare dalla presenza silente, forse anche noiosa (lo avevano chiamato “il sardo muto”), a un’invadenza chiassosa, felice della fama di ‘picconatore’.
Capì la deriva che stava prendendo il mondo della giustizia, con la magistratura che andava trasformandosi da ordine a potere. Impedì fisicamente che il Consiglio superiore della magistratura, da lui presieduto, discutesse (e condannasse) talune iniziative del governo, così come volevano il vice presidente (Galloni, anche lui democristiano) e la maggioranza dei consiglieri. Si trasferì presso la sede del Csm e minacciò l’intervento dei Carabinieri se avessero osato forzare il suo ordine del giorno. Uno scontro durissimo. Che gli fu rimproverato da tanti che poi pagarono il non avere visto per tempo quel che lui vide.
La rottura con il mondo politico avvenne nella notte del 9 novembre 1989. Era insonne e passava la veglia guardando la televisione americana o comunicando via radio, da radioamatore quale era. Colse le prime notizie sul crollo del Muro, a Berlino. Chiamò subito il Ministero degli Esteri: nessuno. Chiamò Palazzo Chigi: nessuno, dormivano. Chiamò il nostro ambasciatore in Germania, che fu svegliato e gli disse: mi informo. Subito dopo: è vero, viene giù tutto. In quello lui vide quel che oggi ci appare scontato, era finita una pagina della storia e la politica sarebbe cambiata. Lo presero per matto. Da moroteo sostenne quel che Moro aveva insegnato: la Dc deve essere alternativa a sé stessa. Spinse per una grande riforma che avrebbe dovuto coinvolgere anche il Pci, cui chiedeva di capire che non poteva restare comunista. Ma il finire della Guerra fredda fece anche emergere i suoi relitti, compresa Gladio, di cui era stato artefice e componente. Se ne disse orgoglioso. Scoppiò il finimondo.
Fu l’ultimo presidente della prima Repubblica. Prigioniero, come quella, del passato che vedeva svanire.
di Gaia Cenol
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