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Marina Cuollo e gli stereotipi della disabilità

Nel suo nuovo libro, Marina Cuollo analizza gli onnipresenti stereotipi sulla disabilità che ancora permeano la nostra cultura

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Marina Cuollo e gli stereotipi della disabilità

Nel suo nuovo libro, Marina Cuollo analizza gli onnipresenti stereotipi sulla disabilità che ancora permeano la nostra cultura

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Marina Cuollo e gli stereotipi della disabilità

Nel suo nuovo libro, Marina Cuollo analizza gli onnipresenti stereotipi sulla disabilità che ancora permeano la nostra cultura

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Nel suo nuovo libro, Marina Cuollo analizza gli onnipresenti stereotipi sulla disabilità che ancora permeano la nostra cultura

Osservare la rappresentazione cinematografica di un fenomeno o della condizione di un gruppo più o meno identificato di persone può essere un’occasione di indagine preziosa. E offrire elementi di conoscenza al tempo stesso utili e interessanti. Il cinema, infatti, beneficiando di un pubblico più ampio ed eterogeneo rispetto a quello di altre forme di espressione, spesso è un’ottima cartina di tornasole sociale. Non è un mistero, del resto, che l’arte e i media da un lato traggano informazioni da quello che accade. E dall’altro possano in molti casi influenzare la percezione collettiva della realtà. Si propone di riflettere su questa dialettica Marina Cuollo nel suo saggio “Distorsioni. La falsata rappresentazione della disabilità nelle narrazioni filmiche”, uscito di recente nella nuova collana “Quanti” di Einaudi.

L’autrice evidenzia come la disabilità, oltre a essere poco rappresentata nei film, venga quasi sempre raccontata attraverso degli stereotipi. Condizione aprioristica di svantaggio rispetto a una corporeità non disabile. Malvagità morale. Retorica dell’eroe che deve superare una prova difficile o accettare i suoi limiti e altro ancora. Affrontare l’esperienza della disabilità con un’ottica di questo tipo ne restituisce una narrazione, se non del tutto distorta, inevitabilmente parziale nonché riduttiva.

Volendo fare un esempio, il film “Avatar” del 2009, diretto da James Cameron. Jake Sully accetta di andare sul satellite Pandora perché in cambio gli viene promessa una costosa operazione chirurgica grazie a cui potrà tornare a camminare. La sua situazione, come quella di altri personaggi cinematografici, è raccontata prevalentemente secondo una prospettiva medica. Che mette in evidenza i limiti del suo corpo ma non quelli di un ambiente abilista in cui prevale un’idea che esalta i valori della forza e della performance. In “Rain Man. L’uomo della pioggia” (film del 1998 diretto da Barry Levinson e interpretato da Dustin Hoffman e Tom Cruise) la disabilità è associata a delle qualità eccezionali. Come una memoria e una capacità di calcolo fuori dal comune.

Cuollo sostiene che per raccontare la disabilità in un modo più equilibrato si dovrebbero coinvolgere più attori disabili. Mentre invece si dà loro spazio assai raramente. Su questo aspetto conviene approfondire una riflessione. Se non è necessario né forse possibile che ogni storia in cui si parla di disabilità sia impersonata da un individuo disabile, un ricorso tanto ridotto ad attori disabili costituisce di fatto una vistosa limitazione delle loro opportunità professionali. Inoltre, conviene considerare che la condizione della disabilità è meno rara ed episodica di quanto molti tendono a credere o a voler far credere.

I dati Istat del 2019 indicano infatti che le persone con una disabilità di tipo grave in Italia sono 3 milioni e 150mila, ovvero più del 5% della popolazione. Tuttavia, la letteratura scientifica e il dibattito collettivo su giornali, tv e altri media hanno finora dedicato a questa materia e alle sue implicazioni sociali molto meno spazio rispetto a quanto, opportunamente, hanno fatto per altre condizioni. Che per varie ragioni si collegano a situazioni di svantaggio e di discriminazione, come le questioni relative al genere e all’identità e all’orientamento sessuale.

Di Luca Vaglio

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