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Memoria

La memoria è tutto. Non deve essere mai sottovalutato il rischio a cui si espone una comunità disposta a travisarla e manipolarla. Il valore del 27 gennaio è e dev’essere universale.
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Memoria

La memoria è tutto. Non deve essere mai sottovalutato il rischio a cui si espone una comunità disposta a travisarla e manipolarla. Il valore del 27 gennaio è e dev’essere universale.
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La memoria è tutto. Non deve essere mai sottovalutato il rischio a cui si espone una comunità disposta a travisarla e manipolarla. Il valore del 27 gennaio è e dev’essere universale.
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La memoria è tutto. Non deve essere mai sottovalutato il rischio a cui si espone una comunità disposta a travisarla e manipolarla. Il valore del 27 gennaio è e dev’essere universale.
La memoria è tutto. La memoria innesca il senso e il rispetto della storia. È il motivo per cui non andrebbe mai sottovalutato l’enorme rischio a cui si espone una comunità disposta a travisarla, manipolarla, violentarla. Il valore del 27 gennaio è universale, a cominciare proprio dalla fondamentale missione di contribuire alla costruzione di una memoria condivisa. Se è vero, infatti, che la scuola e per una volta anche i media stanno facendo un buon lavoro di divulgazione e approfondimento, resta la pesante eredità di decenni in cui abbiamo inquinato l’idea di una memoria comune e riconosciuta. Un patrimonio di cui avremo un gran bisogno in anni che si annunciano particolarmente ‘movimentati’. Per la troppo lunga stagione dell’ideologia al potere, invece, le letture parziali e spesso dichiaratamente di parte sono state spesso le uniche paradossalmente considerate ‘degne’ di cittadinanza. Non stiamo parlando in questo caso, come ovvio, della memoria dell’Olocausto, impossibile da mistificare se non per infime e squallide minoranze. Ci riferiamo alla lettura della nostra storia, che finisce per confondere quasi irrimediabilmente la consapevolezza del Paese su quanto accaduto prima, durante e dopo l’immane tragedia della Shoah. I possibili esempi sono innumerevoli, ma nulla è più emblematico della gravissima e ingiustificabile rimozione collettiva delle responsabilità italiane nell’imperitura vergogna delle leggi razziali del 1938. Una sconfinata editorialistica e anche un bel pezzo di storiografia ufficiale si sono concentrate – non certo casualmente – sui pur rilevanti, numerosi e ammirevoli casi di ribellione personale all’infamia. Ai piccoli e grandi episodi di eroismo quotidiano di tanti italiani capaci di difendere amici o semplici conoscenti ebrei dall’esclusione sociale prima e dallo sterminio poi. Tutto ciò, però, non potrà mai coprire la realtà storica dei tanti (troppi) che accettarono l’inaccettabile per quieto vivere, rassegnazione, senso di impotenza, ma non di rado anche per cinici calcoli e interessi personali. Non furono né pochi né di meno dei connazionali che seppero mantenere la schiena dritta. Meno gravi, ma comunque significative in termini storici, tante altre dimenticanze, come l’oblio che ha avvolto le vicende della “brigata ebraica”, che combattè sul fronte italiano. Dunque per liberarci dai nazi-fascisti, mentre per i ben noti motivi di cui sopra la bandiera israeliana è per taluni ospite indesiderato alle manifestazioni del 25 aprile. Un ben clamoroso non-sense. Coltivare la memoria, del resto, significa anche avere il coraggio di dirsi verità scomode. Convincere le persone ad ascoltare ciò che non vorrebbero sentire e quanto magari sospettano ma ritengono – anche inconsciamente – essere troppo duro dover confermare. Non è un esercizio semplice, perché non lo è mai andare contro pesanti incrostazioni culturali, sfidando letture ideologiche spacciate a lungo come incontrovertibili. Si tratta di scegliere, in fin dei conti, se accontentarsi di coltivare una memoria parziale o accettare la vera sfida della Giornata della Memoria, caricandosi sulle spalle il fardello che presto i sopravvissuti dei campi di sterminio non potranno più portare per tutti noi. È una scelta («Meditate che questo è stato», negli immortali versi di Primo Levi) che ci definirà per le prossime generazioni.   di Fulvio Giuliani

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