Da un lato i timori per le centrali occupate dai russi; dall’altra l’apertura alla produzione di energia che permetta l’indipendenza dal gas di Mosca. Quanto può far paura il nucleare, in Ucraina e in Italia? Negli ultimi giorni sono aumentati gli allarmi per il rischio di incidenti sia a Chernobyl che a Zaporizhzhya, occupate dai russi e dalle quali per alcune ore non sono più arrivati i “contatti di controllo” all’Aiea, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, incaricata di monitorarne l’attività. La stessa Aiea rassicura che non c’è «nessun impatto critico sulla sicurezza», specie per l’emissione di radiazioni.
In Italia si è però riaperto il dibattito sulla sicurezza atomica, soprattutto dopo l’aggiornamento del “Piano nazionale per la gestione delle emergenze radiologiche nucleari” da parte della Protezione civile. «L’allerta scatta perché le centrali nucleari devono essere refrigerate anche per molto tempo dopo lo spegnimento, come a Chernobyl. Non basta disattivarle, come le stufe di casa: devono rimanere in funzione le pompe di raffreddamento per evitare un surriscaldamento del nocciolo» spiega il professor Walter Ambrosini, ordinario di impianti nucleari presso l’Università di Pisa e già presidente dell’European Nuclear Education Network (Enen).
In Ucraina ci sono 4 centrali nucleari attive, per un totale di 15 reattori: Zaporizhzhia, Pivdennoukrainsk, Rivne e Khmelnytskyi. Come spiegato dall’Aiea, gli sviluppi recenti del conflitto in Ucraina riguardano tutela, sicurezza e salvaguardia delle strutture nucleari. «In tempo di guerra – dice Ambrosini – il problema è capire quanto queste notizie rappresentino una reale situazione di pericolo o siano diffuse appositamente per creare panico a favore dell’una o dell’altra parte».
Il dibattito sul nucleare, però, si è riacceso e ne ha parlato anche il presidente del Consiglio Mario Draghi, che al question time alla Camera ha parlato della «fusione a confinamento magnetico» come «l’unica via possibile per realizzare reattori commerciali in grado di fornire energia elettrica in modo economico e sostenibile. La strategia europea per l’energia da fusione è sviluppata dal Consorzio EuroFusion, che gestisce fondi Euratom pari a oltre 500 milioni di euro per il periodo tra il 2021 e il 2025. Questo consorzio prevede l’entrata in funzione del primo prototipo di reattore a fusione nel 2025-28». Una posizione che continua a trovare divisa la comunità scientifica, fra chi la giudica credibile e percorribile (è abbastanza improbabile che il presidente del Consiglio si sia spinto in simili dichiarazioni senza un approfondito confronto con i propri consiglieri scientifici) e chi la bolla come futuribile. È prevedibile che il nucleare affianchi le rinnovabili? «Se vogliamo energia nucleare per la decarbonizzazione – spiega Ambrosini – non c’è che la fissione. Macron vuole costruire da 6 a 14 impianti nuovi di Epr (Epr2 per l’esattezza): è quella l’unica via disponibile, insieme forse a quella degli Smr che stiamo tutti studiando. Altrimenti c’è solo il gas russo o chi ce lo venderà. Le rinnovabili da sole non basterebbero a causa della loro intermittenza» spiega ancora il professore.
Da qui l’accelerazione verso il nucleare da parte di un pezzo di Europa: «Da un lato le centrali in Francia e negli altri Paesi europei stanno avendo un ruolo assolutamente prezioso in termini di sicurezza dell’approvvigionamento energetico in un momento di incertezze sulla disponibilità del gas. Dall’altra le parti belligeranti utilizzano le centrali come ostaggio psicologico per tentare di portare l’opinione pubblica dalla loro parte. Ma allarmismo o eccessive sottovalutazioni dei rischi sono entrambi da evitare» conclude Ambrosini.
di Eleonora Lorusso
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