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La storia dei “Quartieri spagnoli” di Napoli: da pericolo e malvivenza a real time marketing e brand di successo

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La storia dei “Quartieri spagnoli” di Napoli: da pericolo e malvivenza a real time marketing e brand di successo
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La storia dei “Quartieri spagnoli” di Napoli: da pericolo e malvivenza a real time marketing e brand di successo
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A Napoli siamo cresciuti, in una città in cui i “Quartieri spagnoli” erano sinonimo di pericolo costante, malvivenza e illegalità diffusa. Già allora molto era ‘mito’, ma di sicuro nessun turista (se non temerario o per errore) si sarebbe avventurato fra i “bassi” di quegli antichi vicoli. Gli stessi napoletani ormai adulti sgranano gli occhi – oggi – davanti alle fiumane ininterrotte di persone che rendono ormai impossibile anche il traffico pedonale. Vediamoli più da vicino, dunque, questi “Quartieri”.
Gli spagnoli, quando li fecero edificare per accogliere le guarnigioni militari e poter reprimere eventuali rivolte del popolo partenopeo, mai avrebbero immaginato che quel dedalo diventasse la casa del real time marketing. Il termine è ricavato da un manuale di comunicazione: fra vicoli, stradine e gradini si cammina di traverso fra scooter, negozi, bandiere e festoni che collegano – tipo ponte tibetano – le estremità delle balconate dei residenti.
Lì da settimane si producono solo oggetti e memorabilia per il terzo scudetto del Napoli: dalle sagome a grandezza naturale della squadra di Spalletti alla maschera, il dolce o il gelato di Osimhen; dal murale di Kvaratskhelia alle statuette di Maradona; dalla panchina azzurra su un tappeto verde per una sosta in Vico Lungo Gelso, a pochi metri dal murale del Diez, al Vesuvio su cui è disegnato il gagliardetto con il numero 3 e che simula un’eruzione con fumogeni. Fanno fede i minivideo su TikTok e Instagram, testimoni digitali della marcata identità visiva di Napoli.
È il purissimo genio napoletano annegato nell’azzurro e incastrato nell’attività di micro-imprese (perlopiù illegali) che hanno disegnato meglio di un sarto l’offerta sui gusti dei tifosi, ma soprattutto dei turisti che si arrampicano in massa, curiosi e attoniti, “sui Quartieri”, come si dice a Napoli. Sospinti fino in Via de Deo, verso “Largo Maradona” (la toponomastica è rigorosamente ufficiosa, come il merchandising) dove c’è il murale di Diego che è oggetto di pellegrinaggio laico ormai da anni, ma anche verso le scalinate tricolore. Ci sono tavolini e seggiolini per la consumazione di caffè che si intrecciano agli stendini collocati a un palmo dai celebri “bassi”. Gli stessi diventano bar itineranti, mentre a pochi metri dai depositi spuntano migliaia di prodotti per bancarelle abusive: bandiere, trombette, magliette.
Una produzione infinita, essenzialmente legata al carpe diem: così il tessuto commerciale dei Quartieri respira. Esistono già alcuni brand legati ai “Quartieri”, ma servirebbe ben altro: «Sono nate tante micro-imprese nelle ultime settimane e stiamo cercando di condurle nell’alveo della regolarità, tra concessioni e licenze» spiega Vincenzo Schiavo, presidente di Confesercenti Campania e vicepresidente nazionale. «Siamo pronti a fornire supporto, ma le micro-imprese nate in modo spontaneo devono pagare le tasse su bibite, bandiere e magliette. Le assisteremo, ma solo nell’ambito della regolarità».
Parole condivisibili, mentre un sopracciglio s’inarca sospinto dai precedenti di questi luoghi. L’occasione resta: trasformare in brand ciò che un tempo era quasi solo disagio. Senza soffocare inventiva e improvvisazione, ma mettendola a sistema, creando lavoro e ricchezza. Investendo su una Napoli ‘normale’.
di Fulvio Giuliani e Nicola Sellitti
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