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Non è colpa di Gomorra

La “mitizzazione” della violenza camorristica. No, la responsabilità di quanto accaduto a Napoli non è di due serie televisive. Interroghiamoci sui nostri valori
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Non è colpa di Gomorra

La “mitizzazione” della violenza camorristica. No, la responsabilità di quanto accaduto a Napoli non è di due serie televisive. Interroghiamoci sui nostri valori
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Non è colpa di Gomorra

La “mitizzazione” della violenza camorristica. No, la responsabilità di quanto accaduto a Napoli non è di due serie televisive. Interroghiamoci sui nostri valori
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La “mitizzazione” della violenza camorristica. No, la responsabilità di quanto accaduto a Napoli non è di due serie televisive. Interroghiamoci sui nostri valori
È colpa di “Gomorra” e “Mare fuori”? La responsabilità dell’esplosione del gangsta style a Napoli e nell’hinterland è da ricondurre – almeno in buona parte – allo straordinario successo mediatico di queste due celeberrime serie televisive? Anticipiamo subito la nostra risposta: No. Arriveremo alla spiegazione, ovviamente di parte e per sua stessa natura opinabile, ma cominciamo con il ricordare che l’accusa non è certo nuova. Più volte, negli ultimi anni, a fatti di cronaca di sconvolgente brutalità e anche “banalità del male” – come avrebbe chiosato Hanna Arendt – più di un commentatore, politico, editorialista, psicologo e sociologo ha puntato il dito contro la “mitizzazione” della violenza camorristica. Colpa innanzitutto della serie tratta da romanzo di Roberto Saviano e subito a ruota dal vero e proprio fenomeno legato alle vicende ambientate nel carcere minorile (immaginario) di Napoli. Perché il look, la parlata, il linguaggio non verbale, la controcultura e il culto dell’antistato di molti dei protagonisti di efferati fatti di cronaca sembrano oggettivamente usciti dalla sceneggiatura e anche dalla scenografia delle serie TV. È la superficie, però. Abbagliante quanto si vuole, ma non sufficiente a dimenticare che sono queste ultime ad aver ripreso la realtà, non viceversa. “Mare Fuori”, per esempio, è una versione ampiamente edulcorata della terrificante realtà da cui trae ispirazione. E non perché, a differenza di “Gomorra”, almeno in “Mare Fuori” il bene è rappresentato, ma perché l’angoscia di Nisida (il carcere vero) risulta ben peggiore del racconto ambientato nel set spostato nel porto di Napoli. È comprensibile parlare di “amplificatore”, ma anche insopportabilmente ipocrita puntare il dito su romanzieri e sceneggiatori, mentre lo Stato si è ritirato da ampie zone della città e della sua provincia. Possiamo stare qui a interrogarci sull’influenza (negativa, si intende) che le vicende immaginarie possano avere sui ragazzi di Caivano e dei Quartieri spagnoli. Per stare solo agli ultimi, insopportabili casi, ma la realtà resta molto più complessa di così. Il disastro non nasce da Ciro l’immortale o dai Savastano, ma dalla scuola che non c’è. Da interi quartieri abbandonati, dal disordine materiale, dall’assenza di una qualsiasi idea di Stato, di un’autorità diversa da quella della malavita, di lavoro che non sia un perenne arrangiarsi, di spazi e strutture per bambini e ragazzi. Questo distrugge Napoli e la provincia non “Mare Fuori”. Possiamo rimproverare agli sceneggiatori la scelta di disegnare del male? Allora dovremmo avere il coraggio di dirci che è il pubblico a sancirne il trionfo. Che forse l’eroe a cavallo verso il tramonto ha annoiato e preferiamo altro. Interroghiamoci, allora, sulla nostra scala di valori, sulla nostra disponibilità a dare per persi interi pezzi di Paese. Questo è intollerabile molto più delle acconciature gangsta di quattro ragazzini abbandonati a loro stessi. Di Fulvio Giuliani

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