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Giovanni, papà caregiver controcorrente: “Non siamo esseri speciali”

Giovanni Spagnolo, papà di due bimbi disabili, racconta quello che molti caregiver pensano ma non dicono. “Perché a volte è più comodo vestire i panni della vittima”
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Giovanni, papà caregiver controcorrente: “Non siamo esseri speciali”

Giovanni Spagnolo, papà di due bimbi disabili, racconta quello che molti caregiver pensano ma non dicono. “Perché a volte è più comodo vestire i panni della vittima”
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Giovanni, papà caregiver controcorrente: “Non siamo esseri speciali”

Giovanni Spagnolo, papà di due bimbi disabili, racconta quello che molti caregiver pensano ma non dicono. “Perché a volte è più comodo vestire i panni della vittima”
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Giovanni Spagnolo, papà di due bimbi disabili, racconta quello che molti caregiver pensano ma non dicono. “Perché a volte è più comodo vestire i panni della vittima”
«È tempo che la narrazione su noi caregiver cambi. Basta con i pietismi, non siamo divinità meritevoli di vivere nel sacrificio. Tra noi ci sono anche prepotenti e maleducati perché siamo esattamente come gli altri». Giovanni Spagnolo, 46 anni, operaio metalmeccanico, è un fiume di parole. Ha appena staccato il turno dell’alba ma nella sua voce non c’è alcuna stanchezza. La siesta pomeridiana è un ricordo fermo a 8 anni fa. A prima che nascessero i suoi gemelli “speciali”, altra parola che vorrebbe abolire «perché nella disabilità non c’è nulla di speciale». Lo accontentiamo. Speciali lo sono per quei capelli color carota che fanno subito birbante. E in effetti Marco, come tutti i bimbi, un po’ birbante lo è. Poi c’è Flavio, anche lui disabile, a cui però è andata peggio. Se il fratello è autonomo, lui a livello cognitivo è fermo a quando era un neonato; l’operazione che entrambi hanno subìto appena venuti al mondo è sfociata in un’emorragia cerebrale con danni irreversibili. Un calvario che ha il nome di craniostenosi severa, complicata da una forma di epilessia farmacoresistente: Flavio non cammina, non parla, ha ancora il pannolino e dipende in tutto dagli altri. Avendo frequentato diversi istituti per disabili, Giovanni ne ha viste di tutti i colori: «È un po’ come se ci fossimo dimenticati chi eravamo prima di diventare caregiver. Se guardiamo solo alla nostra condizione, pensando che tutto ci sia dovuto, non diventa più un discorso di inclusività ma di esclusività». Il recente caso in Trentino-Alto Adige – dove a una mamma con il figlio disabile pare sia stato chiesto di accomodarsi in una saletta per non disturbare i commensali – ha giustamente sollevato un polverone. Ma esiste un tema importante, davanti a situazioni simili trasformate spesso in letture acchiappa-click: il diritto del disabile a stare nella propria zona comfort. «Quando un ristoratore mi offre un’alternativa più protetta la colgo come un’attenzione, non come una discriminazione» continua Giovanni. «Non punto subito il dito. Non voglio vivere con la frustrazione che caratterizza molti caregiver, soprattutto quelli più anziani che magari non possono più contare sull’aiuto dei nonni. Si diventa rigidi, incapaci di rapportarsi col prossimo. Li capisco anche, ma questi continui j’accuse sui giornali non fanno che innalzare muri tra noi e gli altri. Le vacanze non sono soltanto le nostre e soprattutto non è una gara a chi sta più male. Magari al mio vicino è stato appena diagnosticato un tumore e anche lui sta soffrendo quanto me. E se alcuni albergatori non ci vogliono è perché temono forse di essere sbattuti in prima pagina». Per Giovanni e la sua compagna esiste solo il benessere del figlio, «anche perché se lui è sofferente e urla, i primi stressati siamo noi. Non è un nascondersi, ma un tutelare i miei figli. E poi, possiamo dire che per alcuni può risultare disturbante avere a fianco qualcuno che mentre mangi urla, perde bava dalla bocca e non controlla gli sfinteri? È anche cura del caregiver avere più attenzioni verso gli altri. Non può solo pretenderle». Non se ne parla ma sono tanti i caregiver a pensarla come lui. Quando gli chiediamo come riesca a portare un macigno tanto pesante sulle spalle, non tentenna: «C’è Marco a tenermi su. Lui ci aiuta tantissimo». A conferma che è soltanto l’amore il vero motore della vita. Il resto sono chiacchiere. di Ilaria Cuzzolin  

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