C’è sempre un 25 luglio nelle parabole politiche dei dittatori. Uno spartiacque che separa gli anni del consenso – con i pochi dissidenti ridotti al silenzio, incarcerati, confinati o uccisi – dalla fase del declino. Per Benito Mussolini, duce dell’Italia fascista, fu l’ingresso nella Seconda guerra mondiale a segnare l’inizio della fine che avrebbe portato il Paese in agonia anche a due anni di guerra civile, dal 1943 al 1945. L’isolamento internazionale era invece iniziato ancor prima con l’invasione e la guerra di Etiopia, che avrebbero dovuto concretizzare il sogno fuori tempo massimo di un impero del Belpaese. Quella guerra africana allontanò l’Italia dalle democrazie europee, in particolare da Francia e Inghilterra, facendola finire a braccetto con la Germania nazista di Adolf Hitler.
Un secolo dopo la marcia su Roma si consuma ora a Mosca un’altra parabola politica, quella di Vladimir Putin. Cosa hanno in comune le traiettorie di fascismo e putinismo rispetto al consumarsi della Storia? Il potere di Mussolini in Italia durò un ventennio, quello di Putin a Mosca dura dal 1999, più di ventidue anni. L’invasione armata dell’Ucraina per Putin può segnare la crisi del suo consenso anche in patria, così come la Seconda guerra mondiale segnò il declino del duce. Questa aggressione, infatti, consuma insieme due fatti politici: l’orrore della guerra, con l’esercito di Mosca alle prese con una inaspettata resistenza militare e popolare, e l’isolamento internazionale della Russia, al punto da farla finire nelle braccia della Cina comunista, spostando a Oriente il suo baricentro e la sua dipendenza economica.
In queste prime settimane di conflitto si cominciano a vedere in Russia le proteste di cittadini e cittadine contrari alla guerra di Putin. Come in ogni regime, la censura del dissenso regna sovrana: perfino le parole “guerra” e “invasione” sono state bandite dal vocabolario russo. Al loro posto il potere impone di usare la locuzione “operazioni militari”. La censura è sempre stata un ingrediente base dei regimi autoritari. Il fascismo, attraverso le veline inviate ai giornali e alle disposizioni del Minculpop (Ministero per la Cultura popolare), indirizzava il racconto degli accadimenti in Italia e il modo in cui questi dovevano essere descritti. Le veline fasciste diffuse ai media durante la Seconda guerra mondiale colpiscono per la loro comicità nonostante la tragedia che si andava consumando. Ve ne riportiamo alcuni: «Non pubblicare fotografie di militari in ginocchio durante la messa». «Si ricorda la tassativa disposizione di NON dare in alcun modo notizie di allarmi aerei». «Si ricorda ancora una volta che è tassativamente vietato pubblicare annunzi mortuari a pagamento relativi ai caduti di guerra».
Perché la conta dei propri morti, con i pianti delle madri, fa male pure ai dittatori. Anche se poi il controllo della stampa e dell’informazione, sui tempi medi e lunghi, viene sempre sottratto alla sua oscenità dalla forza della realtà. Dei fatti che accadono. Per questo le leggi dure, come quella che prevede fino a 15 anni di galera in Russia per chi contesta le notizie ufficiali imposte dal regime, sono un segno di debolezza di Putin e non di forza. La debolezza del declino del consenso.
di Massimiliano Lenzi
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