Per uscire dall’ombra servono ragione e pietà
Affrontare la legge sul fine vita. Supporre che il valore della vita sia sentito solo da una fede e non dall’altra o dai privi di fede, è dissennato. Inutile issare bandiere, conta legiferare quel pragmatismo umano che da sempre s’aggira negli ospedali.
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Per uscire dall’ombra servono ragione e pietà
Affrontare la legge sul fine vita. Supporre che il valore della vita sia sentito solo da una fede e non dall’altra o dai privi di fede, è dissennato. Inutile issare bandiere, conta legiferare quel pragmatismo umano che da sempre s’aggira negli ospedali.
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Per uscire dall’ombra servono ragione e pietà
Affrontare la legge sul fine vita. Supporre che il valore della vita sia sentito solo da una fede e non dall’altra o dai privi di fede, è dissennato. Inutile issare bandiere, conta legiferare quel pragmatismo umano che da sempre s’aggira negli ospedali.
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Affrontare la legge sul fine vita. Supporre che il valore della vita sia sentito solo da una fede e non dall’altra o dai privi di fede, è dissennato. Inutile issare bandiere, conta legiferare quel pragmatismo umano che da sempre s’aggira negli ospedali.
Supporre che il valore della vita sia sentito solo da una parte e non dall’altra, da una fede e non dall’altra o dai privi di fede, è dissennato. E se si scende nei dettagli della dolorosa questione, ci si accorge che tante posizioni di presunto principio sono prive di fondamento. Accompagnare alla morte chi si sta spegnendo o chi sta inutilmente e senza speranza soffrendo lo si è sempre fatto, è nella storia di quasi tutte le famiglie e nella quotidianità delle corsie ospedaliere, anche se rette da organizzazioni religiose.
La difficoltà è uscire dall’ombra della pietà ed entrare nella luce piena della legislazione. Una difficoltà oggettiva, che non va né derisa né utilizzata come sbarramento. Ci siamo già occupati del perché la Corte costituzionale non avrebbe potuto ammettere quel tipo di referendum. È sciocco attribuirle un intento politico, dimenticando che è una sua sentenza del 2019 ad avere reso non penalmente rilevante l’avere aiutato un suicidio, al tempo stesso indicando al Parlamento la necessità di provvedere.
Anche perché si crea una condizione assurda: avendo, dopo il caso di Eluana, provveduto a legiferare sul testamento biologico, sicché – sapendo, più o meno, cosa fare in presenza di corpi formalmente vivi ma il cui vivente non c’è, non è in grado di esprimere alcuna volontà – ora ci si troverebbe nel paradosso che per chi non può decidere vale quel che disse, mentre per un vivente dentro un corpo morto, per chi è in grado d’intendere ma non di procedere da sé, invece no, non si sa cosa fare, fino a volergli impedire quel che a un altro non si potrebbe impedire.
Impostare la faccenda come diritto al suicidio non è ragionevole. Per me, laico, e non solo per questa materia, non esiste il diritto al rinunciare al diritto. Ovvio che il suicida non è punibile, ma non per questo mi pare abbia conquistato la libertà. In ogni caso c’entra nulla con la fine di vite che sono terminali non certo per scelta, ma per condizione oggettiva. Credo sia questo il solo filtro da utilizzarsi, senza comitati etici o assistenze spirituali che non siano richieste dai diretti interessati. Le condizioni d’irreversibilità e invivibilità sono accertabili. Il resto può essere assistenza e pietà.
Mi rendo conto che esiste una via alternativa: non ti aiuto a chiudere ma ti metto nella condizione di chiudere con il dolore, mediante la sedazione profonda. Mi chiedo se ci si renda conto dell’ipocrisia che questa via porta con sé: so che soffri troppo, so che non hai speranze, allora ti lascio in vita nel mentre ti tolgo la vita, il pensiero, la parola. Non serve issare bandiere, serve portare nel legiferare quel pragmatismo umano che da sempre s’aggira negli ospedali. Non è facile, ma non riuscirci è un fine vita politico.
di Davide Giacalone
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Tag: Italia
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