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PosSeduti

Tanti paroloni in una questione ai limiti del ridicolo e ormai del tutto superata dall’esperienza quotidiana dei cittadini.
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Tanti paroloni in una questione ai limiti del ridicolo e ormai del tutto superata dall’esperienza quotidiana dei cittadini.
Fine settimana, due corse in taxi in una città del Nord Italia: abbiamo l’ardire di voler pagare con il bancomat. Nel primo caso il Pos era «scarico». Un classico. Attendiamo pazienti la ricarica e la connessione, con il tassista intento a sbuffare e sacramentare a denti stretti e finalmente riusciamo a pagare. Nel secondo caso ci viene candidamente risposto: «Se proprio non può farne a meno, ma francamente preferirei i contanti». Al nostro diniego, la lapidaria affermazione: «Perché voi non ci volete bene». La finiamo lì, perché non abbiamo voglia di discutere, paghiamo (con il bancomat) e a stento ci viene rivolto un cenno di saluto. Sarà certamente un caso – secondo noi non lo è per niente – ma queste due scenette hanno seguito di pochi giorni l’imbarazzante balletto sul tetto delle somme pagabili o meno con il Pos e soprattutto la fulminante battuta del leader della Lega e ministro del governo Meloni Matteo Salvini, secondo il quale chi volesse pagare un caffè con il bancomat sarebbe un «rompiballe». Ipse dixit. C’è un limite all’ingenuità tollerabile e non si può pensare che uscite di questo tipo, come le ultime sul Pos – a loro volta seguite al furibondo dibattito sul tetto all’uso del contante – non lascino degli strascichi profondi. Soprattutto in chi continua a rifiutare, prima ancora del controllo fiscale, l’idea che anche nel nostro Paese la realtà quotidiana sia definitivamente cambiata. Pensare che si possa tornare indietro – a un mondo di rigide corporazioni, di difesa ossessiva dell’interesse particolare e di pochi rispetto a quello di tantissimi – è la vera posta in gioco. Altro che il Pos. Del resto, nelle stesse ore in cui i due tassisti di cui sopra esprimevano tutta la propria tronfia soddisfazione nei confronti del “rompiballe” di turno, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni si lanciava in retromarcia. È stata lei a far balenare che il tetto dei 60 euro, entro il quale ci si può rifiutare senza sanzioni di procedere al pagamento elettronico, potrebbe anche scendere. Di quanto non è dato sapere, almeno non ci è stato comunicato nel primo appuntamento settimanale in Facebook del capo del governo, di cui leggerete nelle pagine interne. Sia chiaro, la sostanza del messaggio non cambia, anche se dovessimo scendere a 40 o 50 euro. Interessante capire se l’annuncio via social sia stato scelto da Giorgia Meloni per sondare gli umori della pubblica opinione o delle anime della propria maggioranza, non esattamente pronte a salire sulle barricate per difendere i pagamenti elettronici. Quello che colpisce di questa sceneggiata è che si fatica a coglierne una qualsiasi utilità che non sia lisciare il pelo ad alcune categorie ben specifiche e a una quota ormai largamente minoritaria del Paese. Nessuno, infatti, ce l’ha con il contante, fermo restando che la possibilità di effettuare pagamenti sino a 5mila euro cash e la questione Pos sono state giudicate dalla Banca d’Italia – non da pericolosi agitatori – uno stimolo all’evasione fiscale e contro «la modernizzazione». Il giudizio è stato espresso ieri, davanti alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato, nelle valutazioni di via Nazionale sulla manovra presentata dal governo Meloni. Per quanto ci riguarda, siamo per l’assoluta libertà di procedere, nei piccoli pagamenti quotidiani, come si preferisce. Se vuoi pagare in contanti, paghi in contanti. Se però desideri utilizzare bancomat o carte di credito non è tollerabile dover sostenere dei dibattiti intrisi del populismo più sfrenato. Voler pagare una corsa da 24 euro in taxi con il bancomat non fa di noi degli affamatori del popolo o arcigni controllori fiscali. Siamo semplicemente come i nostri fratelli europei, che dalla più tenera età crescono nell’abitudine di usare la moneta elettronica (o il contante) con assoluta indifferenza. Detestiamo profondamente il “benaltrismo”, ma in questo caso ci chiediamo se valesse proprio la pena impegnare tante energie e tanti paroloni in una questione ai limiti del ridicolo e ormai del tutto superata dall’esperienza quotidiana dei cittadini. Di Fulvio Giuliani 

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