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Psicologo in classe

Nessuno mette in dubbio l’utilità di un supporto psicologico per i giovani, ma gli adulti non posso perseguire il mito dell’incomunicabilità
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Nessuno mette in dubbio l’utilità di un supporto psicologico per i giovani, ma gli adulti non posso perseguire il mito dell’incomunicabilità
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Nessuno mette in dubbio l’utilità di un supporto psicologico per i giovani, ma gli adulti non posso perseguire il mito dell’incomunicabilità
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Nessuno mette in dubbio l’utilità di un supporto psicologico per i giovani, ma gli adulti non posso perseguire il mito dell’incomunicabilità
Lo psicologo non c’entra nulla. Nel senso che nessuno mette in dubbio l’utilità di un supporto psicologico nell’età dell’adolescenza, in particolar modo davanti a evidenti difficoltà di gestione delle emozioni, dei primi traumi della vita, della delicatissima fase della crescita e così via. Casi frequenti, ma pur sempre da non confondere con la generalità dei ragazzi. Non esiste una categoria “ragazzi”, con caratteristiche, doti e difetti sempre uguali. Ancora: chi potrebbe dirsi concettualmente contrario all’utilità di un’assistenza psicologica professionale? Il tema è evidentemente quello della realizzazione pratica della stessa, dell’evitare che un simile, ambizioso programma si trasformi soltanto in un’altra incombenza burocratica da soddisfare da parte della struttura scolastica. La proposta è abbastanza datata e non ha una diretta relazione con il grave episodio di Abbiategrasso. Il ministro della Pubblica istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, ha solo preso la palla al balzo per ricordare quella che – a suo modo di vedere – è un’esigenza. Noi, che non siamo psicologi e non facciamo i ministri o i politici, proviamo a porre la questione da un punto di vista diverso.  La premessa d’obbligo è che non stiamo scrivendo del caso di Abbiategrasso, che nulla o quasi sappiamo di quel ragazzo, della sua famiglia e dei suoi disagi. Sappiamo però molto bene quel che vediamo intorno a noi: un mondo dei “grandi” che sempre più spesso quasi ostenta l’incapacità a fare quello che resterebbe un suo dovere: trasferire insegnamenti, valori, messaggi, anche i timori delle conseguenze di comportamenti non adeguati. Se sono proprio gli adulti a tirarsi indietro davanti a tutto questo, se amano sempre più spesso atteggiarsi a eterni ragazzi, senza riuscire a cogliere gli aspetti parodistici dei propri comportamenti, non sarà di sicuro uno psicologo gettato nell’arena scolastica (come, seguendo quali procedure e selezioni?) a convincere l’universo maturo – o presunto tale – a smetterla di scappare dalle proprie responsabilità. Uno psicologo potrebbe diventare anche una ben comoda scusa per chi proprio non ci sente da questo orecchio: «Parla con lo psicologo, che lo fa di lavoro».  Crescere ed educare può essere legittimamente considerato più complesso oggi rispetto al passato, a causa dell’abnorme numero di stimoli e “dati” che sommergono i nostri ragazzi. Nessuno lo nega, eppure il mito dell’incomunicabilità fra generazioni, dei linguaggi in perenne evoluzione, del “ai miei tempi” non l’abbiamo certo costruito noi. C’era prima e ci sarà domani. Converrebbe non trasformarlo in un alibi, nel momento in cui non sappiamo bene come rapportarci a generazioni che vanno trattate con serietà, non osservate come fossero strani esseri piovuti da un’altra dimensione.   Di Fulvio Giuliani

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