Vi sarà forse capitato di ricevere mail con l’indicazione, di fianco al nome del mittente, dei pronomi fra parentesi, she/her, he/him, they/them. Oppure l’avrete notato al fianco di alcuni profili social, in particolare in Linkedin. In Italia, è un fenomeno ancora relativamente poco frequente, mentre negli Stati Uniti è di fatto una regola non scritta. L’intento è quello di esplicitare come si desideri essere identificati in termini di genere, sollevando nel contempo dall’imbarazzo il destinatario, che potrebbe non ‘sapere’ se riferirsi a una persona con il maschile, con il femminile o con nessuna indicazione di genere.
Lo accennavamo, da noi il fenomeno comincia a far capolino, in particolar modo nelle comunicazioni con grandi corporation internazionali, ancor più se di origine o proprietà statunitense. Conviene, però, analizzarlo con grande attenzione – oltre che con il dovuto rispetto – per individuarne subito le possibili criticità. Sugli intenti si può essere d’accordo o meno, ma sono arcinoti: far sì che nessuna persona possa sentirsi a disagio o addirittura discriminata per la sua identità sessuale. Sin qui, il dibattito è aperto e si possono avere le più diverse opinioni su una così minuziosa (e persino pedante) indicazione pubblica della propria identità. Per quanto ci riguarda, tutte sono naturalmente legittime e dovrebbero attenere quanto più possibile alla sfera privata dell’individuo.
D’altro canto, proprio il renderlo pubblico è per molte persone un segno di liberazione da uno stato di prostrazione psicologica che va tenuta in massima considerazione. Davanti a un fenomeno dilagante, però, crediamo sia opportuno ragionare sui rischi dello spingere alle estreme conseguenze il pur lodevole intento di rispettare quanto più possibile inclinazioni sessuali, origini, etnie delle persone.
Il tema è di straordinaria delicatezza, come evidente, ma non per questo dovrebbe essere vietato affrontarlo. Anzi. Osservando con attenzione gli Usa, si è facili profeti nell’anticipare conseguenze simili anche da noi. Per chi voglia farsene un’idea, consigliamo la visione di serie televisive come “This Is Us”, “The Morning Show” o le straordinarie “Conversations” di Oprah Winfrey su Apple Tv. Prodotti molto diversi tra di loro e in qualche misura persino scioccanti per chi li guardi da questa parte dell’Atlantico. Seguendoli, ci si rende conto che la definizione del genere e la tutela delle minoranze – obiettivi sacrosanti e ai quali nessuna persona civile può dichiararsi indifferente – finiscono per generare problemi laceranti nella società americana di oggi. Si può far finta di non interessarsi alla distinzione fra ‘She’ o ‘They’, per fare un esempio, ma se le assunzioni in una qualsiasi azienda finiscono per essere fortemente determinate dall’esigenza di scegliere un bianco, un nero, un eterosessuale, un omosessuale, un asiatico, una donna, una persona che non ama venga definito il proprio genere e così via è evidente quanto si metta a rischio il principio della meritocrazia e talvolta anche della logica.
Come comportarsi davanti a forme di riconoscimento e rispetto che finiscono per diventare paradossalmente dei limiti stringenti alla libertà di impresa o di scelta dei candidati? La domanda è scomoda, ma va posta. Nel nostro Paese, la conosciamo già molto bene in relazione alle quote rosa: su questo giornale, Davide Giacalone ne ha sottolineato criticità che ricordano quelle appena esposte; chi scrive le considera un ‘male necessario’ e come tale da maneggiare con estrema cura, per non generare effetti distorsivi.
Quello che non dovremmo mai fare è crogiolarci nei soli aspetti superficiali, cominciando ad aggiungere ‘She’, ‘He’ o ‘They’ in una mail perché ‘si deve fare’ o, molto peggio, ‘perché fa figo’.
di Marco Sallustro
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